Soggiorno letterario 2023, i racconti degli studenti della Holden

Sul canale YouTube della Fondazione Roffredo Caetani il video integrale del reading che si è tenuto nel salone dell’antico municipio del Giardino di Ninfa

I ragazzi della Scuola Holden con il Presidente della Fondazione Roffredo Caetani, Massimo Amodio, il direttore artistico Clemente Pernarella e il presidente dei Parchi Letterari Stanislao De Marsanich. A sinistra il giovane pianista Federico Ventura che ha accompagnato i ragazzi nel corso delle loro letture.

Pubblichiamo i racconti degli studenti della Scuola Holden che sono stati ospiti al Giardino di Ninfa da giovedì 8 a domenica 11 giugno 2023 per la terza edizione del Soggiorno Letterario. I lavori, presentati nel corso di un reading che si è tenuto nelsalone dell’antico municipio del Giardino di Ninfa lo scorso 10 giugno, sono di Chiara Puchetti, Giacomo Collesei, Martina Limardi e Venera Dora Leone. L’introduzione è della docente che li ha accompagnati e supportati durante questa esperienza, la scrittrice Ilaria Rossetti.

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Anche quest’anno la scuola Holden è tornata a Ninfa e l’ha fatto forte delle edizioni precedenti, ma con una novità sostanziale: a partecipare a questo Gettone – l’opportunità, per i ragazzi e le ragazze della scuola, di portare fuori nel mondo le loro storie – sono stati quattro allievi del secondo anno di Academy, la laurea triennale della scuola. Quattro voci un poco più giovani e al battesimo di un’esperienza di scrittura così immersiva come quella che si sperimenta a Ninfa. È stato un viaggio partito da lontano, attraverso una selezione di letture che ha ripercorso a grandissime linee il tema del rapporto umano-natura – oggi più che mai contemporaneo -, da Tasso a Leopardi passando per Virgilio, fino a Italo Calvino, che su Botteghe Oscure pubblicò uno dei suoi testi più legati a questa tematica, “La formica argentina”. Proprio Calvino, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita, è stato infine l’autore su cui ci siamo concentrati, a caccia di suggestioni che trovassero in Ninfa uno specchio e una eco potenti, capaci di generare storie e di diramarsi nella scrittura. Una volta giunti a Ninfa, però, è avvenuta una piccola meraviglia: passeggiando per i sentieri del parco, all’ombra delle rovine e dei rampicanti, ascoltando i fruscii delle foglie e lo scroscio gentile dell’acqua, ascoltando i racconti e le suggestioni di Daniele Vicario e Clemente Pernarella, che con generosità e passione ci hanno accompagnato durante la visita, Chiara Puchetti, Martina Limardi, Giacomo Collesei e Venera Leone si sono lasciati condurre ben oltre i temi che avevamo provato a sviscerare, trovando con il Giardino consonanze del tutto istintive e personali.

Da qui questi quattro racconti, che mi hanno sorpreso per intensità, per un senso del mistero e del mistico che sembra accomunarli tutti pur sviluppando scelte narrative differenti. Fiori enormi che da piante esotiche cadono rompendo il silenzio, volte di pietra dove la luce, in alcune ore del mattino, balla con guizzi argentati, pesci che restano sospesi nella corrente, alberi spezzati che trovano una maniera minimale e sorprendente di sopravvivere, bestie condannate dalla fede e dalla storia al disprezzo e alle leggende, che tuttavia possono guidare altrove, verso una forma di verità: la natura, e il rapporto che gli uomini e le donne hanno con essa, è al centro di tutti i testi. A volte sembra immutabile, a volte si è trasformata irreparabilmente, e qui le narrazioni creano mondi spaventosi e sofferenti, in consonanza evidente con i problemi della nostra contemporaneità. Chiara, Martina, Giacomo e Venera hanno scritto le loro storie in una giornata, le hanno riviste, corrette, infine le hanno lette in pubblico: il tutto all’interno di un Giardino fuori dal tempo e dalle logiche odierne, dove i loro sguardi sono stati capaci di tradurre bellezza, paura, inquietudine e lotta nel gesto nella narrazione. Per scrittori e scrittrici agli inizi del loro percorso non è poco.

Grazie alla Fondazione Caetani, al Presidente Massimo Amodio e a tutte le persone che ci hanno accolto, ospitato e aiutato. Grazie a Clemente e Daniele, guide fondamentali per questo viaggio. Grazie, soprattutto, a Chiara Puchetti, Martina Limardi, Giacomo Collesei e Venera Leone: per essersi messi in gioco fino in fondo, per le storie che ci hanno regalato.

Ilaria Rossetti

I racconti

Venera Dora Leone

Mira

Mira gioca sempre da sola. In realtà non gioca, più che altro si guarda intorno e fa cose. Stamattina, quando ha sentito suo fratello uscire di casa, con i passi negli scarponi che risuonavano sul pavimento, è corsa alla porta e l’ha seguito fuori.

E Tommaso non era sorpreso di ritrovarsela alle spalle che saltellava: quando restava troppo indietro, prima che lui sparisse dopo una curva del sentiero, o quando iniziavano gli alberi dell’agrumeto, lei lo superava correndo, poi lui le passava accanto camminando col suo solito ritmo, e con quel suo modo di lasciar andare le gambe in avanti, e lei restava ancora indietro, a guardare un millepiedi sotto una roccia che era riuscita a sollevare da sola.

Mira è piccola, ma non chiede mai aiuto.

Quando c’è una pietra troppo pesante e Mira fa fatica, Tommaso la tiene d’occhio da lontano non per controllarla, ma per la curiosità di vedere cosa sta facendo; alla fine lui distoglie lo sguardo, ma quando si volta di nuovo lei ha già sollevato la roccia. Magari c’è riuscita facendo leva con un ramo, o l’ha trascinata via con una corda, lasciando un solco nel prato.

Arrivati all’agrumeto ognuno ha il suo posto e lo raggiunge in silenzio, passando sotto l’arco di pietra, già prendendo la propria direzione: Tommaso verso gli alberi, sotto un arancio, il primo della fila, lì inizia a potare i rami e poi passa ai pompelmi.

Mira va a giocare da sola, va all’ultima fila di alberi d’arancio, lì dove passa il ruscello. Si sdraia sull’argine erboso, il corpo, nel vestito azzurro, orizzontale come se desiderasse seguire l’acqua nella sua corrente, trascinata come le alghe arrendevoli, che fluttuano sul fondale, così lente da non farsi notare. E quando inizia a vederle, Mira scorge anche un pesce. È scuro, con riflessi argentei, una punta rossastra tra gli occhi, immobile nonostante la corrente, i colpi leggeri di coda che lo mantengono sospeso e allo stesso tempo in vita.

Forse così respira, pensa la bambina. Si alza di scatto dall’argine e corre verso Tommaso, chiamandolo. Lui sbuca da dietro un arancio, non risponde ma fa un passo verso di lei, esce dall’ombra dell’albero sotto al sole, e l’aspetta.

Ma non c’è bisogno che lui resti in attesa a lungo, perché Mira correndo già gli grida cosa vuole fare, e lui lascia le cesoie e si dirige verso il capanno di canne di bambù in fondo all’agrumeto.

Ne esce con la canna e il filo in mano, lo fa passare nell’occhiello dell’amo senza smettere di camminare verso Mira, che lo aspetta al ruscello. Lei lo osserva con la bocca leggermente aperta, gli occhi allungati che le diventano tondi di meraviglia.

Quando Tommaso arriva lei gli indica subito l’acqua. Voglio pescare quel pesce, ma quel pesce – la trota, dice Tommaso – non c’è già più.  Lui si sporge sull’acqua, mentre Mira si siede sull’argine con la canna in mano.

Lui le dice che non basta vederle per prenderle, che prima devono abboccare, e quindi bisogna stare immobili e avere molta pazienza. Mira resta in silenzio.

Tommaso torna agli alberi d’arancio pensando che tra poco vedrà la canna abbandonata a terra e Mira di nuovo intenta a sollevare una pietra lì attorno, per scoprire uno scorpione o un millepiedi.

Tanto ne è convinto che si dimentica di voltarsi a guardare cosa stia facendo la sorella.

Si gira verso il ruscello dopo tre ore, il sole è alto, al centro del cielo.

Sussulta alla vista della piccola schiena seduta dritta sull’argine, appena più alta delle ortiche che crescono poco distanti, la canna tra le mani, nella stessa identica posizione in cui l’ha lasciata tornando all’agrumeto.

In quell’istante la sente gridare. Vede la canna piegarsi e tendersi bassa verso l’acqua, tanto che non sembra più, da quella prospettiva, che Mira tenga qualcosa tra le mani.

Molla le cesoie a terra e corre verso di lei.

Le sostiene la canna senza prendergliela, anche perché lei non la lascia: non vedono il pesce fin quando Tommaso non lo fa emergere dall’acqua.

La luce del sole rende il filo a cui ha abboccato invisibile.

Tommaso lo tira su e in un lampo lo afferra. Con le dita sfila l’amo.

Mira si alza in piedi con gli occhi sgranati, invece di avvicinarsi al fratello per vedere la trota fa un passo indietro.

Tommaso ride, le ripete Brava, hai visto?

Le avvicina la trota al viso tenendola stretta tra le mani: gli occhi stralunati sono aperti e tondi come quelli di Mira, quel punto rossastro sopra agli occhi, ora, fuori dall’acqua, sembra una macchia di sangue livido, antico, e non vivo; la bocca boccheggiante, la coda che sbatte sui polsi di Tommaso, fa il rumore che fanno gli schiaffi. La pinna che sott’acqua prima era pacifica ora è una turbina disperata che si scatena a vuoto.

Hai visto …?

Ributtalo! Ributtalo! Mira lo urla con le lacrime agli occhi e il viso paonazzo. Tommaso allontana le mani, le stringe intorno al pesce che continua a divincolarsi, con più forza di quanta in realtà ne abbia.

Boccheggia. Il sangue, dall’apertura tonda che non si chiude più, cola sulle dita di Tommaso. Mira piange e tra i singhiozzi continua a dire Ributtalo, ributtalo.

Lo dice sempre più piano tanto che diventa un sussurro.

Tommaso è mortificato, fa per avvicinarsi alla sorella ma il pesce si contorce, adesso più debolmente. Il rivolo di sangue scivola dalle dita ai polsi di Tommaso, segue il percorso delle vene.

Mira. Ormai l’abbiamo pescato, sta soffrendo. Non si può ributtare.

Mira singhiozza e torna a urlare che sì, si può ributtare. Tommaso si siede a terra accanto a lei, con una mano stringe la trota morente, con l’altra accarezza la sorella, la tira a sé, le macchia la maglia di sangue.

Non lo possiamo ributtare, sta morendo.

Mira smette di piangere ma resta triste, si allontana e va dietro al fratello, si appoggia alle sue spalle e fissa gli occhi del pesce che si vanno offuscando.

Il bianco perlaceo diventa una leggera patina opaca. La coda sbatte ancora, forte. La trota, spossata, trova la forza per usare la pinna l’ultima volta.

Mira si chiede se sia stato l’ultimo suo tentativo di liberarsi, o se stesse già sognando di essere nell’acqua, e di usare la pinna per restare ancora sospesa nella corrente.

Mira avverte la terra sotto i piedi, per la prima volta, cedevole.

Tommaso appoggia il pesce sull’erba, si lava le mani nel ruscello e dice: Margherita lo cucinerà bene.

Tommaso la chiama sempre così, la mamma, Margherita. E mentre lo dice afferra la trota e dice Andiamo. Mira prima di seguirlo verso casa si guarda indietro, verso l’acqua del ruscello. Anche questa è una cosa che non faceva mai, guardare indietro. Come farsi aiutare. Ma stavolta resta a fissare lo specchio per qualche secondo, non è più limpido, è offuscato come gli occhi del pesce che diventavano opachi mentre moriva e Mira lo guardava dall’alto e lui, come se la riconoscesse, guardava lei.

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Martina Limardi

Senza cielo

“Il cielo non ci vuole. Giorno dopo giorno le crepe si fanno sempre più ragnatela lassù. In alto, la patina cerulea si spezza, ci crolla addosso. Qui stiamo bene. Staremo bene. Il cielo non ci serve.”

I dieci anziani recitarono i versi in coro, le loro voci riecheggiavano nell’oscurità della chiesa sconsacrata dove la comunità viveva. Ricordavano a tutti ciò che dovevano temere, ricordavano a tutti che solo tra quelle mura, sarebbero stati al sicuro.

Le loro voci rimbombarono nella testa pesante di Ambra che, fra i suoi genitori, schiacciata tra le persone, non cercava nemmeno di farsi spazio con lo sguardo per vedere meglio, un caldo bagnato le gravava addosso, appiccicandole i vestiti al corpo esile.

Due degli anziani tirarono tre volte il catenaccio in bronzo ossidato che pendeva dalla bocca della campana sospesa sull’altare, facendo partire tre colpi. Gli occhi chiari e arrossati della ragazza si alzarono verso il soffitto. In quel periodo dell’anno, l’umidità diventava un corpo solido, si univa ai fumi degli incensi: si infiltrava nel suo corpo passando dalle orecchie, dalle narici, dalla bocca. Le si gonfiava nei polmoni, toglieva spazio alla poca aria che riusciva a farsi respirare.

Il rito ebbe inizio: “Oggi celebriamo il passaggio, il terzo e ultimo passaggio del novantottesimo anno di internamento. Oggi celebriamo quella che, nel vecchio mondo, chiamavano estate”. Altri tre colpi di campana.

Ambra, con il collo ancora piegato verso l’alto, strizzò le palpebre e strinse i pugni. Non capiva. Loro, di fatto, l’estate non l’avevano vista mai. L’unica traccia arrivava con la luce di quei mesi che, filtrando dalle vetrate, bruciava i loro occhi abituati all’oscurità.

Quel giorno, l’intera comunità assisteva al rito dell’annuncio della nuova stagione, consumata da una febbrile eccitazione, distratta, per una volta, dalla monotonia del cibo in lattina, dell’afa, dei lavori da svolgere. Ambra iniziò a indietreggiare, allontanandosi dai suoi genitori, passando tra i corpi imbambolati. Andò verso il pesante portone di legno. Più gli si avvicinava, più le voci degli anziani si facevano distanti. All’improvviso un altro rumore si fece spazio nelle sue orecchie. Lo seguì: sul fondo della navata, fuori dalla folla schiacciata intorno all’altare il suono si sentiva più chiaramente. Frusciante, sottile. Abbassò lo sguardo accanto a sé, fece in tempo a vedere quel che le parve un fluido scuro scivolare sinuoso sotto il portone. Altri tre colpi di campana.

Ambra prese un respiro, strisciò con la schiena contro il muro, poggiò una mano sulla grossa maniglia e tirò.

Per quelli che non riuscì a dire se furono minuti o secondi le sue palpebre rimasero incollate e il petto contratto. Dopodiché le gambe iniziarono a muoversi da sole. Un passo dopo l’altro, prima incerto e poi sempre più veloce, prese a inoltrarsi all’esterno. Intorno a lei si innalzavano torri scure, alte, piene di braccia e mani dai colori sgargianti, mosse da un’aria che le dava l’impressione di potersi innalzare in volo.

Li riconobbe. Erano gli alberi. Gli anziani li raccontavano come creature che sradicano le proprie lunghe gambe dal terreno e si nutrono di corpi estranei, non provano compassione, è solo così che possono alimentarsi. Le dita le tremavano mentre si avvicinavano al tronco scuro, tanto nero da sembrare vuoto. Lo voleva toccare, la corteccia era come se si muovesse, tremava sotto il calore della sua mano, mutava in continuazione formando nuove ferite sulla superficie dura, creando sentieri percorsi da un liquido denso, trasparente.

A farle ritirare il braccio fu il rumore che l’aveva chiamata. Si chinò e la vide: era una creatura lunga e sottile, il corpo di un verde acido, maculato, che le feriva la vista. Dalla testa romboidale spuntavano due piccoli occhi di ossidiana. Si muoveva fluido intorno a lei, lo immaginò viscido come il sangue che scorreva lungo la sua tibia quando era più piccola e cadeva sulle ginocchia. Strisciava tra foglie che, invece di spezzarsi, sembravano fargli spazio.

Ambra lo osservava ipnotizzata. Si ricordò delle storie di sua madre che spesso finivano per andarla a trovare nel sonno: serpenti che con i denti come chiodi d’avorio si avvicinavano lenti alle mammelle di grossi animali fatti di latte. Vacche, le chiamava. Le bisce bramavano quel liquido bianco, lo stesso che lei bambina cercava dai lividi capezzoli materni. Spesso sua madre le raccontava quella storia delle donne del vecchio mondo che allattavano soltanto chiuse nelle loro case. Altrimenti, fuori, le serpi le avrebbero morse scambiando il liquido bianco con il loro veleno.

La biscia si inoltrò nel fitto della foresta, Ambra lanciò uno sguardo alle sue spalle, verso la grande chiesa. Ripensò agli occhi sbiaditi dei suoi genitori, della sua gente. Poi tornò a fissare lo sguardo sulla coda viscosa dell’animale che si allontanava, muovendo onde lungo il terreno. Ambra si acquattò al suolo e la puntò con attenzione. Ebbe quasi l’impressione che le sue pupille potessero fuoriuscire da un momento all’altro per seguirne il moto. Andava avanti, si sentiva lenta rispetto alla spasmodica velocità del volare degli uccelli in mezzo alle fronde, che, per la prima volta, non vedeva opachi attraverso un vetro. Rimase concentrata sulla biscia, la rincorse finché non sparì in un varco della terra. Allora alzò lo sguardo e uno specchio d’acqua le restituì l’immagine di quella che dovette riconoscere come sé stessa. L’aria accarezzava la superficie. Ci infilò una mano. Si lasciò sedurre da quelle che sapeva essere alghe, spugnose e magnetiche, si muovevano circolarmente. Alla fine alzò la testa verso l’alto. Nel cielo la ragnatela di crepe non c’era, il cielo la voleva.

Ma qualcuno dirà di lei che non esiste più.

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Giacomo Collesei

Magnolia

Un uomo, un giorno, fuori faceva caldo ormai da settimane, tornò a casa da lavoro, e in casa, una casa vecchia con quattro mura bianche, un salotto e una cucina con il televisore, decise di starci, e non uscire più.

Quella mattina si era sorpreso a dormire con la bocca aperta. Quando gli capitava, sentiva fastidio alla gola. Un prurito scomodo, quasi ci fosse un’ortica incastrata laggiù. L’unico rimedio, ogni volta, era quello di deglutire la saliva. Deglutì chino sul lavello, dopo essersi distrattamente sciacquato la faccia. Deglutì spostandosi i capelli dietro le orecchie, in modo da sentirsi più ordinato e pulito. Deglutì mentre chiudeva la porta a chiave, e il suo pensiero era già rivolto al lavoro, a un’altra giornata vissuta solo per concluderla.

Era faticoso trascinarsi fino alla fermata dell’autobus, salire e andarsi a sedere nel primo posto libero accanto al finestrino. L’afa di quei giorni era solida, soffocante. Aridi erano i campi, i giardini e tutto ciò che per sopravvivere aveva bisogno d’acqua.

L’uomo deglutì un’ultima volta, scordandosi poi di aver male. Intravedendo le vetrate del suo ufficio, prenotò la fermata e si preparò a scendere. Salutò l’autista con un arrivederci, un sussurro, così lieve che quasi non lo sentì nemmeno lui.

Al lavoro ci entrava con la testa bassa, e se avesse avuto una coda questa lo avrebbe ostacolato nel camminare, stretta e nascosta tra le gambe. Gli occhi li posava sul computer, tutto il giorno, fino a quando dalla finestra il sole iniziava a cedere al buio. Quando ormai lo schermo si poteva spegnere e rimaneva solo lui, il suo riflesso scuro incastrato all’interno.

Si asciugò la fronte sudata, strofinando poi la mano sporca sui pantaloni. Piano uscì dall’ufficio, senza rivolgere la parola a nessuno.

Al ritorno, prima di rincasare, passava del tempo seduto sulla panchina di un parco. Lì non c’era soltanto lui, adulto, con un lavoro e una vecchia casa, ma c’era anche sua madre. Era giovane, i capelli legati, e lui era bambino. Un bambino di dieci anni che trascorreva le giornate a guardare un albero di magnolie. Era tanto alto da sfiorare il cielo, i rami sparsi come le radici che lo nutrivano. I fiori erano grandi e sua madre un giorno gliene indicò uno e disse: “Se ascolti bene, quando cadono, fanno rumore”.

Quando il bambino, poi ragazzo e infine uomo, rimase da solo su quella panchina, quel suono lo sentiva sempre più forte. Lo amplificava lui, nelle orecchie, nella mente, perché le cose importanti assordano quando cadono. Quella sera, come altre prima, gli venne da pensare al giorno in cui sarebbe successo a lui, di cadere, e se qualcuno allora lo avrebbe sentito.

Tornò a casa e si chiuse la porta alle spalle. Lavò il piatto sporco del giorno prima, un bicchiere, una forchetta e mangiò qualche avanzo rimasto nel frigorifero. Nessuno c’era mai stato dall’altra parte del tavolo. Il silenzio, come la luce del giorno da una grande finestra, inondava ogni angolo, e lui ormai ne faceva parte. Spense la lampada della stanza e andò a dormire.

Quella notte sognò di chiudersi dentro casa, e di non uscire mai più. Sognò anche sua madre, e i tutti campi secchi e prosciugati del paese.

Il giorno dopo si svegliò ancora con la bocca aperta. Iniziò a deglutire, ma da disteso, avvolto nelle lenzuola bianche del letto. Ci passò intere giornate così, da quel mattino in poi.

Con i soldi che aveva messo da parte negli anni, quelli per le speranze della madre di vederlo sistemato, riuscì ad andare avanti. La spesa se la faceva portare a casa, così come tutto il resto. Si sformò un po’, ingrassando sui fianchi e sulle guance. I capelli passarono da scuri a bianchi e poi caddero. Allo specchio tanto non si guardava più, si accontentava dell’illusione di non essere mai cambiato, che le decisioni prese fossero state quelle giuste. Ignorava poi tutti quegli spigoli in cui la casa si era affaticata. Lo sporco che ormai sarebbe stato impossibile da cancellare. Divenne così un uomo anziano.

Poi, un giorno, mentre se ne stava a letto, le mani a sorreggere la nuca calva e lo sguardo rivolto in sù, avvertì un rumore esterno. Per anni il suo cielo era stato il soffitto di casa, e ora, d’un tratto e con un boato, in quel cielo apparve uno squarcio. Per un attimo l’uomo si sentì nel posto sbagliato, rovesciato, ciò che cresceva in terra lo guardava dall’alto. Una delle grandi querce che costeggiava la casa aveva sfondato il tetto, riducendola in gran parte in macerie.

L’uomo, rimasto incolume, per qualche istante non si mosse dal letto. Si tastò il cuore, poi di colpo si infilò sotto le coperte. Avrebbe anche potuto restare così, nascosto, impedire all’ossigeno di raggiungerlo, scendere fino ai piedi del letto e aspettare. Ma non ci riuscì.

Riemerse quindi dalle coperte, scavalcò tegole e detriti, e si buttò in strada. Addosso aveva solo una canottiera e delle mutande bianche, i piedi nudi a contatto con l’asfalto. Andava avanti piano, guardando un po’ a destra e un po’ a sinistra, smarrito. Procedette così, come un randagio, finché si ritrovò nei pressi del parco. Faticò a riconoscerlo, arso e ingiallito dal sole che gli bruciava sopra.

C’era però un albero che ancora viveva. Osservò la magnolia nella sua interezza, e quasi gli veniva da piangere. Tornare indietro sarebbe stata la cosa migliore, ma lui ora non ci pensava più. Stette un po’ lì, in attesa. Un fiore di magnolia sarebbe potuto cadere da un momento all’altro.

E le cose importanti, quando cadono, fanno rumore. Per uno spettacolo del genere, la vita valeva la pena di essere ascoltata.

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Chiara Puchetti

Antifragile

Non so come si chiami, non me l’ha voluto dire. All’inizio del sentiero mi ha chiesto -Deve piovere stamattina? – e io con la mano bagnata stringevo la pala, che è pesante e mi scivola sempre con le piogge deboli. Le ho detto di no, che aveva appena smesso, ma in realtà non potevo saperlo. È da tempo che si alza l’acqua del fiume, laggiù scorre in picchiata, e sulle sponde su cui andavo a giocare ora si potrebbe solo nuotare.

-Mi servirà una buca presto – ha annunciato la donna, e così è partita, con la sabbia del sentiero ancora umida sotto i sandali; e da allora mi sta davanti, alta nel bosco. Tutt’attorno, ogni albero porta un nome, un cognome, l’anno di nascita, l’anno di morte. Le vite passate, sepolte sotto di loro.

La donna non alza mai lo sguardo più dell’orizzonte, nemmeno l’abbassa, e i nomi non li legge. Ha le gambe secche e prosciugate, storte, come due rami costretti a crescere contro un muro. Tante macchie rosse le coprono la pelle, come sfoglie di corteccia, si allungano fino al vestito e lì si nascondono. In cima ha tanti riccioli, corti e biondi, più bianchi attorno al viso: una cornice.

Scaverò una buca anche per lei, e qui un giorno avrà la sua tomba.

  • Quello cos’è?

Indica un albero, senza fermarsi, con il braccio tremante per lo sforzo e l’indice che sembra un legnetto spezzato.

  • Un leccio. È alto, resistente…

Lì c’è mio padre, chinato a terra a spolverare l’epitaffio intagliato nel tronco. La donna lo sfiora con il suo fianco spigoloso. Lui alza lo sguardo, la saluta con un cenno del capo e si mette in piedi, ma lei prosegue, e quando superiamo un cespuglio fitto non lo distinguiamo più.

Ferma qualche metro avanti, la donna mi aspetta senza voltarsi del tutto.

– Più sveglio, ragazzino – ordina mentre le corro dietro – Facciamo in fretta.

Tendo il manico della pala e le indico la quercia davanti a lei.

– Quella?

Scosta per poco lo sguardo dal sentiero.

-Non ha le foglie abbastanza grandi, non mi protegge.

-Ne cerca uno in particolare?

Quando si gratta le braccia, la sua pelle si sgretola. Mentre cade ricorda i trucioli del legno, ma sul prato subito si confonde.

Sussurra: – No -. Si schiarisce la gola e lo ripete: – No.

Le propongo uno dei pioppi. – È bianco, vive tantissimo – alzo la voce – Duecento anni.

Lo sciabordio del fiume sovrasta ciò che le dico.

Lei si sofferma sul tronco, i piccoli buchi che sembrano occhi le restituiscono lo sguardo.

 – È troppo stretto – ribatte. La sento a malapena.

– Il torrente è così vicino? – mi chiede – Cosa succede se l’acqua arriva al bosco?

Allora me la immagino come un albero. Fragile, con il suo corpo esile a macchie, che perde pezzi. La dovremmo sorreggere con il bambù, come si fa con le piante più piccole.

Mi cade una goccia sul naso e stringo la pala: – È tornata la pioggia. – Guardo il cielo con la mano a coprirmi la fronte: – Però è debole, finirà presto.

Lei prende fiato aprendo la bocca, l’acqua le sgocciola sulle labbra. Scuote la testa ed esce dal sentiero.

Attraversa il bosco di bambù lì accanto, barcollante ma veloce, appoggiandosi tra una canna e l’altra. Non la vedo più. La chiamo ma non risponde, e la cerco scostando gli arbusti con la pala. I miei piedi sprofondano tra le foglie e il fango.

La trovo affacciata sul letto del fiume, la pioggia le ha disfatto i ricci. Mi fermo al suo fianco, il mio sguardo dove punta il suo: -Ha perso qualcosa?

Lei si sporge in avanti e scivola sull’argine, d’istinto io l’afferro per la maglia e cado sulle ginocchia. La donna pianta le dita nel terreno, ha i piedi in acqua.

La riporto sulla sponda trascinandola da dietro, mentre il resto del suo corpo resta steso. Respira. Respiro. Guardiamo all’orizzonte, dall’altra parte del fiume.

– Quello – indica lei, e avvicino l’orecchio per sentirla – è morto?

È l’antifragile. L’anno scorso è caduto a terra. Un temporale.

  • No – le dico – no, non è morto. Ha rimesso le radici, non hanno bisogno di andare in profondità.
  • È a terra – mormora – e sporco.

La gonna bianca le si è appiccicata alle gambe, rivela la sua pelle a chiazze. In autunno si confonderebbe tra le foglie secche.

-Non sono macchie. È la corteccia. In certi punti è di un marrone quasi arancio, in altri è verde, sul fianco c’è quel muschio, vede? I licheni bianchi.

La donna si mette a sedere a fatica, facendo forza sulle braccia: -Non è morto.

-No.

Si gratta, la sua pelle secca è bagnata.

– Posso ancora vivere – sussurra – Posso ancora vivere, allora?

– È un antifragile – le rispondo – Può morire.

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Qui il video del reading

Il soggiorno letterario organizzato dalla Fondazione Roffredo Caetani fa parte dei progetti del Parco Letterario Marguerite Chapin. Media partner il quotidiano La Repubblica. I ragazzi sono stati accompagnati nelle letture dalle musiche del pianista Federico Ventura, grazie alla collaborazione con il Campus Internazionale di Musica.

(Testi: riproduzione riservata)