Dal 28 giugno al 2 luglio 2022, presso il Giardino di Ninfa, si è tenuta la
2ª edizione del soggiorno letterario dedicata alla figura di Pierpaolo Pasolini
Ospiti al giardino gli studenti della Scuola Holden, ecco i racconti.
Pubblichiamo i racconti degli studenti della Scuola Holden che sono stati ospiti al Giardino di Ninfa dal 28 giugno al 2 luglio 2022 per la seconda edizione del soggiorno letterario dedicata, quest’anno, alla figura di Pierpaolo Pasolini. Gli scritti sono di Hélène Carlotta Lupatini, Gabriele Olivo, Alessandro Refrigeri e Lorenza Sabatino. L’introduzione è del docente che li ha accompagnati e supportati durante questa esperienza, il professor Andrea Tarabbia.
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E così, grazie a un nuovo “gettone” – chiamiamo così, alla Holden, quelle iniziative che permettono agli studenti di andare a portare le loro parole fuori dalla scuola – siamo tornati a Ninfa. Ci sono state alcune novità. Anzitutto, i ragazzi e le ragazze che hanno partecipato – a differenza di quelli dello scorso anno, che avevano chiuso il ciclo di studi – sono a metà del loro percorso, hanno cioè da poco finito il primo anno. Ma soprattutto è cambiato, e non di poco, il tema su cui, nei giorni in cui siamo stati ospiti, abbiamo lavorato: l’anno passato era stato naturale concentrarsi in modo esclusivo sui temi, i motivi e le suggestioni che un luogo meraviglioso e così ricco di storia e di storie come Ninfa regala; quest’anno non potevamo ripeterci. Così, in accordo con Clemente Pernarella, e grazie al suo aiuto e alla disponibilità di tutti, in particolare di Daniele Vicario, abbiamo provato a immaginare una strada alternativa. È bastata un’occhiata: quest’anno, come si sa, è il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, intorno al quale, durante l’estate, Ninfa propone svariate iniziative. Pasolini conosceva Ninfa? Certo che sì, ci è stato alcune volte, ci sono documenti e memorie che lo raccontano: aveva pubblicato dei versi su “Botteghe oscure” e aveva rapporti di vicinanza con Marguerite Chapin e altri membri della famiglia Caetani.
Ma come lavorare su Pasolini? Che cosa si può dire su di lui che non è stato ancora detto? E come si può legare, in un racconto, la sua figura a quella di Ninfa?
Abbiamo pensato di concentrarci su alcuni temi pasoliniani, scegliendo quelli più consonanti con il Giardino – dunque le rovine, il misterioso rapporto che c’è tra natura e artificio, tra vita selvaggia e razionalità e, ancora, la pulsione di morte e il vitalismo, il senso del trascendente e la violenza. Abbiamo letto, nelle settimane precedenti all’arrivo a Ninfa, alcuni testi pasoliniani, abbiamo provato a trovare una strada dentro quel continente che è stata la sua mente, il suo genio e le sue contraddizioni. Poi abbiamo visitato Ninfa, abbiamo visto alberi caduti che continuano a vivere, rose che si prendono pareti intere, giochi di luce, e fonti, e chiese crollate dove però, ancora, resistono vecchie icone di santi. E abbiamo scritto. Anzi: hanno scritto. Gabriele Olivo, Hélène Carlotta Lupatini, Lorenza Sabatino e Alessandro Refrigeri hanno avuto un paio di giorni per immaginare una storia possibile, scriverla, correggerla e leggerla in pubblico.
Il risultato è quello che segue. Sono quattro racconti molto intensi, pervasi da una vena drammatica e, stranamente – lo dico perché è una cosa che ha sorpreso me per primo –, da un afflato quasi religioso: ci sono dèi, resurrezioni, figure di Cristo, miracoli che avvengono a Ninfa o grazie a Ninfa, e si parla di pietre magiche, di peccato e di redenzione. Credo che sia qualcosa che ha molto a che vedere con Pasolini, ma soprattutto con il Giardino, perché il Giardino è un altrove, un luogo diverso da ogni altro luogo, e chi vi entra accede a una dimensione parallela, un contromondo fatto di bellezza ma anche di inquietudine, di lotta tra l’uomo e la natura. Ecco, io credo che questi racconti restituiscano tutto questo, ciascuno con il suo stile e con il suo senso profondo. È uno dei segreti della scrittura, questo: lasciarsi pervadere dalle cose e trovare il modo, e la lingua, per restituirle in forma nuova. Non è poco.
Chiudo ringraziando: il Presidente Tommaso Agnoni e a tutto lo staff che ci ospita e ci aiuta, e naturalmente Clemente e Daniele. Ma soprattutto grazie a Gabriele, Hélène, Lorenza e Alessandro: il percorso è ancora lungo, ma la strada è tracciata.
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I racconti
Hélène Carlotta Lupatini
Le età del bronzo
Era l’età del bronzo e gli uomini erano sulla terra da un tempo abbastanza lungo perché avessero imparato a fabbricare degli oggetti.
Era l’età del bronzo e gli uomini erano sulla terra da abbastanza tempo perché i legami di sangue si fossero mischiati al punto da non poterli più distinguere.
I loro occhi divennero attenti a seguire i corsi delle acque e a osservare i tempi delle fioriture. Sole dopo sole impararono a servirsene. E scoprirono di poter avere nutrimento in abbondanza e di poter avere acqua senza dover aspettare le piogge.
Osservarono il tempo dilatarsi e le loro menti scoprirono nuove strade, per la prima volta lontane dalle necessità del corpo.
Una donna, così, notò che le mele di cui si nutriva la sorella erano più rosse.
Un uomo, così, notò che l’altro aveva scoperto un campo e non voleva mostrarne la strada.
Qualcuno imparò a dire: -Mio. E sulla terra iniziarono a comparire delle linee, e ai bambini venne insegnato a contare ciò che avevano.
A ogni sole gli oggetti si affilavano, e a ogni luna le gocce di sangue avrebbero riempito anfore sempre più grosse.
Qualcuno disse: -Legge. E l’altro rispose, -La voglio fare io.
E c’era chi era d’accordo con l’uno e chi era d’accordo con l’altro. Gli uni cercarono nuove terre, gli altri rimasero in quelle conosciute. Ma se i padri riuscirono a dimenticarne la rabbia, non lo fecero i figli. Che non potendo più combattere contro la legge dell’altro, cominciarono a bramare il sangue di chi lo condivideva con il proprio. E più la violenza colpiva coloro che avevano amato, più la brutalità divenne mostruosa. Questa plasmò l’uomo e l’uomo divenne mostro.
Qualcuno dall’alto iniziò a voltarsi. – Non abbiamo creato questo.
E ognuno diceva – Non è colpa mia.
E intanto il sangue scorreva e i fumi dei corpi bruciati arrivavano al cielo.
Tra di loro cercarono un colpevole e siccome erano tutti eguali lo riconobbero nel padre.
E andarono da Zeus, e gli dissero che al di sopra del cielo non c’era niente e che provavano vergogna a guardare sotto.
E Zeus dovette abbassare lo sguardo. Notò prima le donne, che erano belle. Poi gli uomini che erano brutali. E poi gli uomini che erano belli, e le donne che erano brutali.
Provò pena per chi veniva martoriato, e per la menzogna che corrompeva fin dal principio.
Poi tutto divenne crudele, e fu colto da disprezzo. E fu colto da sdegno.
Le persone presero a gridare al cielo, e venne l’inverno, e la neve rese il sangue brillante.
Lo vide scorrere sulle montagne e pensò che fosse vivido.
Ci fu poi quell’uomo che per primo invocò il suo nome nell’atto di uccidere. E nel silenzio che seguì, non lo disse, ma si sentì potente. Aspettò che qualcun altro lo facesse. E prese a contare le volte in cui accadde.
Chiamò gli altri, e per quanto fosse osceno, rimasero tutti a guardare.
Zeus scoprì che esistevano molti sguardi in cui potersi riconoscere padre. E che il terrore è dissimile dall’amore solo per le ombre.
Poi accadde. Nella violenza, gli uomini e le donne presero a toccarsi il corpo e ne furono eccitati. Fu a quel punto che il dio desiderò mischiarsi a loro.
Scese dal cielo in forme diverse e non lo seppero riconoscere.
Osservò da vicino le lame entrare nel corpo e i corpi profanare gli spazi. Si sentì crudele e volle versare il sangue.
–
e non ne aveva.
Era un’età diversa da quella del bronzo e gli uomini avevano cambiato gli dei.
Era un’età diversa da quella del bronzo e alcuni uomini avevano sostituito gli dei con la ragione.
Nacquero occhi che cercavano il sole e, nacquero occhi che lo trovarono.
Ma quando lui conobbe il sole, capì che non era per tutti –Mamma lo vedi? –No Pier Paolo, non lo vedo.
Scoprì la tristezza, perché lì, seppe che non poteva donarsi a colei che amava e non accettò di non poterglielo dire.
E così cercò parole nuove, e trovò che ne esistevano molte. Se ne innamorò e le rubò senza ritegno e seppe dire quello che lui vedeva.
E la madre vide il sole.
Poi si innamorò di gente nuova e anche loro non lo vedevano. Così dovette cercare altre parole, poiché la madre non volle donare le proprie. E per lei ampliò lo spazio e per lei ampliò il tempo.
Le trovò. E altre persone potevano vedere quello che lui vedeva.
Più imparava a raccontare, più imparava a discernere.
E trovò che gli piaceva il bello, e sapendolo raccontare, nella sua mente iniziarono a comparire delle linee.
A ogni sole i pensieri si affilavano. E a una luna, accadde che seppe separare il bello da ciò che rimaneva, e gli diede il nome di brutto.
E lì si scisse. E da lì, non fu più completo.
Momento infelice, se ne pentì come della più oscena violenza, e avrebbe profanato se stesso per rimetterli insieme. E ciò che lo tormentò fu che l’amore non si era scisso insieme al giudizio e si scoprì ad amare anche il brutto.
Diviso e tenuto insieme. Si sarebbe squarciato se avesse saputo come.
Perduta innocenza.
Si ritrovò con il corpo di un uomo e gli occhi di un dio. Più si divideva meno riusciva ad amare se stesso e questo gli faceva orrore.
Più si odiava e più desiderava ciò che gli somigliava ed era il brutto. O come lui lo riconosceva.
Si innamorò di ciò che avrebbe giudicato come indecente. Ciò che lo avrebbe escluso non solo da sé ma dalla luce che aveva cercato con gli occhi.
La pena che si inflisse fu quella della vergogna.
Prese a desiderare il brutto di chi era come lui. Dell’uomo come solo corpo.
E il mondo gli fece violenza per ciò che amava. E lui la subì come la più infame delle pene.
E così desiderò lo scandalo di se stesso. Voleva punirsi per non esser stato capace della perfetta unità.
Allontanato dal sole, giudicato da se stesso, emarginato dalla ragione.
Avrebbe voluto morire e mischiarsi tra gli dei a cui non aveva mai voluto credere.
Avrebbe voluto arrivare al cielo senza corpo.
–
Ma lo aveva.
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Gabriele Olivo
La pietra verde
Da una settimana la tosse di suo nonno non faceva che peggiorare e già all’insorgere dei primi sintomi avevano consultato il medico del paese. La visita era durata più di un’ora: gli aveva misurato la pressione, controllato i polmoni, le vie respiratorie e tutto il resto. Un’espressione angosciata pareva dipinta sul volto del medico, benché alla fine aveva detto che poteva trattarsi di una qualche forma virale, e che in ogni caso avrebbe voluto visitarlo nuovamente entro quindici giorni.
Ma da un momento all’altro la situazione precipitò, comparve quella tosse orribile, e il respiro si fece via via più corto fino a diventare un sibilo impercettibile. Sua madre ritenne allora poco saggio che una bambina di otto anni udisse i rantoli di un moribondo, specialmente se questo moribondo era suo nonno. Così, escogitando ogni volta un pretesto diverso ma tutto sommato credibile, suo padre la caricava in macchina e la portava a camminare nel bosco.
Uno di quei giorni, però, non si sforzò di trovare alcuna scusa, anzi non proferì parola: si limitò a carezzarle il viso, sorridendole come mai aveva fatto prima. Lei capì che era ora di andare, di lasciar riposare il nonno. Si tennero per mano fino alla macchina e insieme si diressero verso il bosco.
Quel pomeriggio non presero il sentiero principale, ma si addentrarono laddove la natura cresceva rigogliosa e indisturbata in un silenzio che silenzio non era. I maschi delle cicale, infatti, intonavano per ore intere lunghe serenate e di tanto in tanto si potevano udire i canti delle ghiandaie imitatrici appollaiate dietro le fronde degli alberi. I suoni del bosco erano una presenza costante, eppure bastava dimenticarsene anche solo un momento per non rendersi conto di tutto quel chiasso.
Più avanti lungo il cammino, nascosto agli occhi del mondo, un piccolo lago verde-azzurrognolo era avvolto nella fitta vegetazione. Decisero di fermarsi lì qualche minuto prima di tornare indietro. Andarono a sedersi all’ombra di un vecchio pioppo nero, un colosso ultracentenario dal tronco così largo che sarebbero servite otto persone per abbracciarlo. Suo padre le disse che quand’era piccolo il nonno non mancava mai di raccontargli una storia secondo cui il vecchio pioppo era in verità il guardiano della foresta e che, a volte, avvicinandovi l’orecchio, era possibile origliare i segreti che custodiva. La bambina domandò se il pioppo gli avesse mai sussurrato qualcosa. Lui scosse il capo, ma la invitò a fare un tentativo. Allora lei si avvicinò lentamente alla corteccia, socchiuse gli occhi, ma non sentì nulla a parte il costante frinire delle cicale. Perciò se ne andò a riva e provò a pescare a mani nude quei pesciolini argentati che sguazzano nelle acque poco profonde. Fu in quel momento che notò, adagiate sul fondale sabbioso, due strane pietre delle dimensioni di un pollice. Le tirò fuori e ne osservò una da più vicino. Era dello stesso colore del lago, ma controluce risplendeva d’un grigio metallico. La superficie scabra attraversata da sottili nervature ambrate era ricoperta da un groviglio di filamenti che le conferivano un aspetto viscoso, a metà fra il muschio e il formaggio fuso. Anche solo sfiorandole, le fibre rocciose si sfaldavano immediatamente, svolazzando per aria come capelli. Qualcuna finì sullo specchio d’acqua e galleggiò un poco, prima di essere trasportata via dal vento.
Quando mostrò la pietra a suo padre, accadde però qualcosa di imprevedibile. L’uomo si fece improvvisamente scuro in viso e una smorfia di terrore misto a disgusto gli corrugò la fronte. Strappò la pietra dalle mani della figlia e con tutta la forza che aveva in corpo la gettò il più lontano possibile nel lago. In quel preciso istante, di colpo le cicale smisero di frinire, come avvertite di un pericolo imminente. Suo padre la costrinse a lavarsi le mani nell’acqua limpida e lui fece lo stesso, sfregandosi con tanta veemenza che si ritrovò con entrambi i palmi escoriati. Borbottò tra sé e sé qualcosa di incomprensibile prima di chiederle dove l’avesse presa. Sentendo puzza di guai, la bambina affondò il viso nella giacca e la strinse forte. La reazione di suo padre l’aveva turbata e non capiva come un oggetto così piccolo potesse creare tanta disperazione. Fece qualche passo verso di lui, lo abbracciò e con voce avvilita gli disse di averla trovata in acqua. Ciò che non gli disse era che aveva infilato l’altra in tasca. Più tardi, quella sera, il nonno peggiorò e l’indomani era già morto. Aveva il naso ancora macchiato di sangue, la bocca aperta, le gengive nere e gonfie sul punto di esplodere. Il dolore che aveva accompagnato il malato nelle ultime ore era stato così intenso che dava l’impressione di soffrire anche da morto. Chini intorno al suo capezzale, il padre, la madre, la nonna e un paio dei loro amici più stretti pregavano in silenzio. Durante la notte avevano fatto richiamare anche il medico, ora in piedi in un angolo della sala, nella speranza che appellandosi alla scienza avrebbero potuto quantomeno ritardare l’inevitabile. Dal fondo del corridoio la bambina li osservava tutti, rigirandosi ossessivamente la piccola pietra nella tasca.
A un certo punto sua madre si voltò verso di lei: non disse nulla, la guardò soltanto. La bambina rabbrividì, e temette di essere stata scoperta. Si chiese, a questo punto, se la pietra era la causa della morte del nonno, e dunque se era stata lei a ucciderlo. E che ne sarebbe stato degli altri? Avrebbe ucciso anche loro? Anche la nonna, presto o tardi, sarebbe morta nelle medesime circostanze? Probabilmente, così, avrebbe finito per uccidere anche se stessa. Decise allora che sarebbe stato opportuno sbarazzarsene subito. Infilò la pietra – o qualunque cosa fosse – in un calzino gualcito, si lavò le mani e uscì di casa. Corse per alcune centinaia di metri, col cuore che le batteva forte nel petto, sino a raggiungere un campo incolto. Stando ben attenta a non essere vista da nessuno, scavò a mani nude una buca alta quasi quanto lei, vi seppellì all’interno il calzino e lo ricoprì di terra. Poi rientrò, e in lacrime si gettò fra le braccia di suo padre.
Ma ormai era tardi. Alle fibre era bastata una sola notte per diffondersi ovunque, nella casa, e intossicare coloro che la abitavano. Una peste invisibile si era aggrappata con gli artigli ai loro corpi indifesi.
Rimase silente per anni.
Poi, li sterminò tutti.
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Alessandro S. Refrigeri
Resurrezione
Alle undici di domenica entrò in chiesa.
Era già stato a Messa quella settimana. Di venerdì, Venerdì Santo. Il prete, vestito di rosso, aveva alzato la croce tre volte, silenziato le campane e letto un passo dal Vangelo di Marco. Era sul giardino dei Getsemani: parlava della preghiera, del sonno degli apostoli, del bacio di Giuda, dell’arresto di Cristo. E infine di un fanciullo, vestito solo con un lenzuolo, che aveva seguito il messia tutta la sera e che all’arrivo delle guardie era fuggito. Nudo.
Non si era appassionato alla predica del venerdì e allo stesso modo non fece caso alla predica della domenica: per un peccatore, la parola della croce era stoltezza, fesseria, e la messa di Pasqua una lenta china di sudore e affanno.
Evitando di incrociare lo sguardo del parroco, scivolò via dalla panca; si lasciò alle spalle i fedeli in attesa della benedizione e uscì senza sfiorare l’acquasantiera.
La primavera portava in paese un senso di decoro che trovava il suo culmine nel giorno della resurrezione: davanti a lui si aprì la piazza deserta e l’unica testimonianza di umanità era l’odore del fumo e dei carciofi brasati, lasciati a riposare sui davanzali per essere tiepidi a pranzo.
Affrettò il passo per essere il più lontano possibile dalla chiesa al rintocco delle campane. Per un momento pensò di tornare a casa, stendersi sul letto e aspettare l’arrivo della sera; uscire e scoprire che in sua assenza tutto si era acceso e tutto si era spento. Invece, scelse la strada campestre, quella che portava al fiume.
Oltrepassò il granaio e poi il mulino e le cinque o sei case che sbucavano tra gli olivi, poi scese per il sentiero tra i due casolari e continuò a camminare fino al podere dei due olmi, dove viveva la coppia di contadini che aveva conosciuto appena arrivato in paese. Gli avevano regalato uova, ricotta e pane, lui aveva contraccambiato qualche giorno dopo con una bottiglia di vino. Non avevano più parlato da allora. Li vedeva durante le sue passeggiate mentre andavano e venivano dai campi di girasole, lui con un largo cappello di paglia e lei con un fazzoletto legato sotto al mento; e li aveva visti anche alla messa quella mattina: erano in seconda fila, ma non cantavano.
Proseguì lungo la sterrata fino a sentire il rumore del fiume, poi scelse il prato. Passò tra i cespugli di lavanda, superò la grande betulla fino alle magnolie e notò che il sole di quei giorni ne aveva ingiallito i fiori più alti. Ciliegi, cornioli, caprifogli, salici, lecci: intorno a lui, tutto si muoveva al comando del vento. Quando giunse al fiume, le ombre si erano ritirate e il paese, che vedeva come un mucchio di macchie colorate in lontananza, gridava alleluja: si chinò sull’argine e con le mani raccolte a coppa prese dell’acqua da gettarsi sul viso. Decise di distendersi sull’erba e di attendere lì l’ora della sera. Sentì solo per un momento gli occhi pesanti, ma quando li chiuse capì di non avere sonno. Si perse allora a guardare nel cielo le traiettorie delle rondini: le vedeva passare tra le fronde degli alberi, e salire e scendere come caccia da guerra, diventare acrobati in un gioco di piroette e picchiate a pungere il pelo dell’acqua.
Fu un rumore a ridestarlo. Un fruscio leggero, quasi impercettibile, un dettaglio stonato e insopportabile per il suo orecchio. Cercò con lo sguardo oltre i cespugli, poi verso i salici. Finalmente lo vide, nascosto dall’ombra di un corniolo: un ragazzo, avvolto in un candido lenzuolo di lino, lo fissava. Rimase seduto, incurante, finché non ebbe il dubbio di essere stato seguito fino al fiume dal ragazzo. Con un cenno della mano lo invitò ad avvicinarsi. Il ragazzo si strinse al lenzuolo con fermezza e avanzò in direzione dell’argine. Era molto giovane, non doveva avere più di quindici anni, e ancora portava addosso quella pudica bellezza che solo le creature nell’età della grazia possono vantare. Quando riuscì a distinguere meglio i tratti del suo viso, capì di averlo già visto in paese. Se ne stava sempre seduto sul muretto davanti alla scuola, con un soprabito grigio a coprire le spalle e un librone sotto il braccio. Non sapeva come si chiamasse e non l’aveva mai visto leggere quel libro. Era più interessato alle persone che passavano. Così, quello sguardo che lo fissava avvolto nel panno bianco, non gli sembrò che familiare. Arrivò a un passo dal fiume e a un passo da lui, ma non guardò mai verso il fiume e guardò sempre verso lui. Il lenzuolo lo avvolgeva dal petto alle ginocchia e i pugni ne stringevano i lembi per assicurarselo addosso. Non aveva altro a coprirlo. Il giovane rimase in piedi, così anche lui fu costretto ad alzarsi. Notò che era alto per la sua età e che la sua carnagione era particolarmente chiara. Per un attimo, pensò di offrirgli la sua camicia per coprirsi. Invece, accostò una mano al lenzuolo e lo scostò leggermente, scoprendo il piccolo crocefisso dorato che custodiva sul petto. Con l’altra gli carezzò le mani, ancora serrate: la sua pelle era liscia, senza nei, e non tremava. Lentamente, il fanciullo schiuse i pugni, lasciandosi scivolare il lenzuolo ai piedi. Rimase nudo, con le sue vergogne. Lui non si spogliò ma continuò ad ammirarlo: era un idolo, di vita e di tenerezza, a cui il tempo non aveva ancora proposto la sua corruzione. Lo cinse con le braccia per i fianchi e lo avvicinò a sé. Con una mano carezzò il suo viso e poi il suo ventre. Lentamente percorse il corpo fino al petto, poi le sue dita si fermarono sul crocefisso. Giocherellò con la catenina dorata, intrecciandola tra pollice e indice come a fare dei piccoli fiocchi, tornò sul cristo e con il polpastrello ne saggiò gli spigoli. Tenne gli occhi puntati sul ciondolo, poi lo lasciò e fece un passo indietro. Sentì le campane sciogliersi dai loro nodi e nella loro allegrezza risuonargli nelle orecchie. Un altro passo indietro. Il ragazzo fece per seguirlo, ma con un gesto secco lo arrestò. E per un attimo, si scandalizzò. Il ragazzo davanti a lui era disgraziato, miserabile, povero, patetico. Nudo. I suoi piedi si mischiavano nell’erba, il crocefisso brillava al sole. Tornò a guardare il ragazzo in volto e in quell’occhiata mise l’invito ad andarsene e lui capì e fuggì via senza coprirsi. Per un istante, pensò al giardino dei Getsemani. Il lenzuolo era riscattato e ormai abbandonato alla terra. Diede un’ultima occhiata ai cespugli, ai salici e al corniolo, per controllare che il ragazzo non lo stesse spiando. Raccolse il panno e se lo passò sul viso per asciugare il sudore, poi se lo avvolse intorno al collo. Camminò lungo la riva per alcuni minuti, controcorrente, allontanandosi sempre di più dal paese e dalle sue gioiose ufficiature. Superò l’ansa del fiume e arrivò in un grande prato sormontato dai campi di girasoli. L’erba era alta e soffice, così levò le scarpe e camminò a piedi nudi fino all’argine. La corrente – tersa e incolore – guidava a valle le foglie e i fiori recapitati dal vento e nei suoi gorghi i raggi di sole creavano archi lucenti che facevano scintillare l’acqua d’argento. Lungo la sponda, le libellule pizzicavano i fiori gialli dell’iris acquatico e danzavano in ruota tra le foglie verdi-azzurre. Le osservò per alcuni istanti: si mise in ginocchio e sfiorò con una mano uno dei fiori, per sentirsi come loro. Tornò in piedi, slacciò con cura i bottoni della camicia e se la tolse inarcando le spalle, poi sfilò il tutto il resto e rimase nudo, con le sue vergogne. Si riavvicinò alla riva e con la semplicità delle lavandaie si inginocchiò e abbandonò i panni al fiume, mentre si sporgeva in avanti per vedere il proprio volto riflesso nell’acqua.
Si sdraiò infine sul prato, l’erba gli solleticava appena la schiena. Allungò la mano verso il lenzuolo, ultima veste, e se lo avvolse intorno al pube. In lontananza, sentì un rumore e incuriosito ruotò su un fianco per scoprirne la fonte. In cima alla salita, davanti ai campi di girasole, il contadino dal cappello largo di paglia spingeva a fatica una pesante carriola carica di concime. D’un tratto, l’uomo si fermò e si voltò nella sua direzione. Lui rimase steso, immobile, affascinato dall’idea di bussare al cuore ingombro di quel contadino. Sotto il cappello di paglia poteva sentire lo sgomento di un uomo che aveva appena visto un miracolo: sdraiato in quel prato, coperto nelle grazie da un lenzuolo di lino, c’era un cristo nel giorno della resurrezione.
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Lorenza Sabatino
L’ex-vita
In un debole lezzo di macello
Vedo l’immagine del mio corpo:
seminudo, ignorato, quasi morto.
E così che mi volevo crocifisso,
con una vampa di tenero orrore,
da bambino, già automa del mio amore.
L’ex-vita, PPP
La strada dal Monastero di San Magno al Giardino di Ninfa era piuttosto lunga, ma la chiamata fu urgente e i frati, tra tutti, decisero di mandare Giovanni a controllare, ché tanto della questione dei miracoli se ne sarebbe occupata la Curia in seguito. Dopotutto, a loro non toccava far altro che dire sì, controllare che il ragazzo che era affogato fosse vivo.
Era il 16 di maggio e quella mattina il ragazzo si era allontanato dal gruppo, aveva salito le scale per il lago e lì era caduto, non sapeva nuotare. L’avevano trovato che galleggiava a faccia in giù, non lontano dalla riva, coi capelli sparsi tutt’intorno alla testa.
Il medico aveva dichiarato il decesso, poi i guardiani del Giardino l’avevano spogliato e lasciato nudo perché le fibre s’erano dilatate, la stoffa era sul punto di sciogliersi e così bagnato avrebbe rovinato il materasso. L’avevano messo di fianco alla sala del municipio, la madre aveva insistito per restare. E là, nella stanza di legno, sotto le travi e sopra il materasso molle, il ragazzo s’era svegliato.
Dal Monastero di San Magno, quindi, mandarono Giovanni, che era novizio, perché avrebbe pedalato fino al Giardino senz’affanno per tre ore filate. Così pedalò Giovanni: superando Monte San Biagio, Terracina, la sorgente sulfurea e il lungomare. Poi, prese per San Benedetto senza fermarsi. Solo arrivato a Latina Scalo credette di non poter raggiungere il Giardino, gli doleva il tendine teso dietro il ginocchio. Tuttavia, pedalando, lo sciolse.
Poco più di tre ore dopo, all’ingresso, il sovrintendente gli offrì dell’acqua. Lo guardò bere e, ringraziandolo, subito lo prese sottobraccio. Lo condusse verso la camera del municipio, passando per i torrenti che scorrevano sotto i loro piedi. Durante il cammino, il sovrintendente gli disse che il testimone de visu era la madre, e che il figlio non parlava l’italiano, sapeva farlo solo lei ed erano in visita dalla Boemia. Il sovrintendente parlava e zoppicava intanto, ma di quella zoppia di chi cammina a fatica per il caldo e solo per quello dovrebbe portare il bastone; niente a che vedere con il dolore proprio dietro al ginocchio del frate, un fastidio costante.
Salite le scale per l’antica sala del municipio, il sovrintendente fece per aprire la porta.
“Voi sembrate giovane,” disse, fermandosi. “Potreste non essere preparato”.
Ma Giovanni sciolse il collo, con le dita allontanò i lembi del saio per farsi fresco sulle clavicole. Gli fece segno di voler entrare.
La sala era fresca, e l’aria che s’incontrava non era diversa da quella di una chiesa. Di fronte a Giovanni stavano la madre e il figlio sulle sedie di legno dalle spalliere alte, le schiene curve a toccarli solo con la vertebra centrale. Giovanni non vide la scrivania poco lontana, né il camino col motto ardendo vivo, Gelasio Caetani; non vide i mobili con gli araldi, né i quadri ai lati della piccola scalinata che conduceva alla stanza dov’era avvenuto il miracolo. Vide solo la madre e il figlio. Quello aveva la faccia smunta, la bocca aperta e i capelli umidi attaccati agli zigomi. La donna si alzò e gli andò incontro; il sovrintendente uscì e richiuse la porta.
Giovanni non strinse le mani della donna che, prendendole nelle sue, sorrise. Poiché rimase in silenzio per molto tempo e Giovanni desiderava guardare ancora il ragazzo, la invitò a parlare.
Allora la donna gli lasciò le mani e parlò pronunciando le vocali brevemente e le consonanti con forza.
“Padre: mio figlio non sa nuotare”.
Respirò commossa, e il petto le si gonfiò per poi svuotarsi subito. Si portò una mano al seno, poi al volto e lì rimase. Continuò.
“Da dove veniamo non c’è il mare, e al lago non ci si va mai,” disse. “Mio figlio non va al lago, era la prima volta per lui, oggi”. Giovanni cercò di guardare oltre lei, verso il ragazzo. Non gli avevano portato vestiti, era a torso nudo e teneva il lenzuolo fino alle caviglie.
“Voglio parlare con lui,” disse Giovanni, e superò la donna. Quella gli parlò da dietro le spalle.
“Non può,” disse. “Prima di morire provava a cacciare via l’acqua e la gola si è strozzata”.
Il giovane non lo guardava, ma teneva il gomito sulla sedia e la mano sulla fronte; per quella pendenza del busto, i capelli gli coprivano gli occhi.
Poiché i miracoli non lasciano ferite, Giovanni insisté e si rivolse al ragazzo.
“Vuoi parlare con me?” disse.
Il ragazzo non rispose, poi sussultò come per una specie di conato, dalla bocca cacciò dell’acqua, si accasciò sul grande tappeto rosso. Cadde con le braccia aperte, il lenzuolo che gli scopriva la schiena, le gambe incrociate alle ginocchia. E lì fu fermo.
La donna volle portare il figlio su per le scale. Aveva insistito per tenergli le spalle, così Giovanni fu costretto a prenderlo per i piedi, a stringergli le caviglie divaricandole.
Cadendo, il ragazzo aveva battuto la fronte. Gli si era rotto il naso, e ora la madre cercava di tenergli la testa, sussurrando lo convinceva a rialzarla. Ma, così disteso, il sangue dal naso gli colava fin sotto l’orecchio e la testa continuava a battere sui gradini. Raggiunsero il letto trascinandolo: lì, la madre acconsentì a farlo prendere per le spalle dal frate, ma prima sistemò sul letto degli asciugamani rimasti sulla sedia lì di fianco.
“Non vogliono che il materasso si bagni,” disse.
Poi insisté, voleva che Giovanni sedesse sulla sedia accanto al letto cosicché potesse guardar bene. Lei sarebbe rimasta in piedi, si sarebbe torta le mani, avrebbe parlato alternando la sintassi italiana a quella della sua lingua; avrebbe chiesto al frate di pronunciare con lei qualche Ave Maria e gli avrebbe chiesto se nel Giardino avessero per caso piantato degli ulivi, come al Getsemani.
“È sotto uno di quelli che Cristo spezzò il pane e rese grazie,” così avrebbe detto, e l’avrebbe fatto senza imprecisioni. Giovanni avrebbe risposto, a quel punto, che non lo sapeva, ma che nell’orto dei Getsemani Cristo, poi, fu baciato da Giuda e, trascinato a processo e sentenziato, morì.
Quindi, nessuno prese posto sulla sedia e la donna non poté fare nessuna di quelle cose. Tuttavia, Giovanni attese insieme a lei. Quella iniziò a parlare, e disse che era il giorno di San Giovanni Nepomuceno e che suo figlio l’aveva salvato lui. L’altra cosa che disse fu che se il figlio non aveva parlato era perché gli affogati non parlano, l’acqua allarga loro la laringe e la sfibra, com’era successo coi vestiti, avevano dovuto buttarli. Disse che lei lo sapeva cosa succedeva al corpo degli affogati perché suo padre era morto così. Per questo, al lago, il figlio non lo aveva mai portato.
Allora Giovanni, che molto avrebbe voluto visitare il lago ma che ancora non voleva lasciarla, le chiese di descriverlo. E la donna gliene parlò, disse che era verde, le alghe stavano verticali, scosse dalle correnti, ma che il figlio galleggiava disteso, e che nell’acqua non c’erano gorghi, era piatta, e non sapevano come avesse fatto a caderci dentro senza riuscire a ritrovare un appiglio.
Ancora, la donna disse: “Se non riuscite a spiegare il miracolo,” e camminava per la stanza, “spiegatemi come ha fatto”.
Giovanni non le spiegò, ma le diede forse l’impressione di saperlo fare perché se ne stava a guardare il corpo, che per tutto quel tempo rimase fermo. Fermi i gomiti storti, piegati e rigidi, i polsi contratti con le dita che s’erano fatte larghe alla punta e strette alle nocche. Fermo quel ventre gonfio da cui l’ombelico sporgeva invece di rientrare, lo sterno rigido e allo stesso tempo allargato, largo nei punti sbagliati, tra una costola e l’altra e al centro niente, un buco all’altezza dello stomaco. Lì da dove Giovanni lo guardava, col collo che non gli teneva la testa dritta, vide che aveva gli occhi aperti, ricacciati verso l’alto, e un paio di pieghe agli angoli che mai s’interrompevano fino alle guance e gli facevano parere alti gli zigomi, le ossa forti. E la bocca, che era stata aperta tutto il tempo, gli faceva vedere la parte interna dei denti, alcuni erano neri e la lingua stava morbida sul fondo del palato. Nello spostamento, oltre alla testa doveva aver urtato il costato, che ora s’era aperto ma non usciva sangue: stagnava nella ferita, e non strabordava neanche di un rivolo.
E mentre la faccia gli si faceva grigia, Giovanni sentì di nuovo quel dolore al tendine dietro il ginocchio; così, capì perché non era ancora tornato a casa.
Pedalando, forse il tendine gli si sarebbe rotto, e anche lui avrebbe assunto quella strana forma degli arti. Forse avrebbe sbandato sull’asfalto, finendo sotto un’Alfa Romeo grigia, e gli si sarebbe inondata la faccia di sangue, l’avrebbe cacciato dalla bocca anche lui mentre gli ripassavano sopra e lui non moriva, si sentiva ancora schiacciare le costole, a perforare gli organi sbagliati, ovvero tutti tranne il cuore. E lui sarebbe morto sapendo di morire, anche il suo corpo sarebbe diventato uno di quelli che, a guardarlo, potrebbe anche far perdere la fede a qualcuno.
Così Giovanni, distogliendo lo sguardo e cambiando posizione per non stargli troppo vicino, oltrepassò la donna, che mai aveva smesso di parlare fino a quel momento. Solo allora rimase in silenzio, e quando gli chiese dove andasse, quando gli disse che di lì a poco il figlio si sarebbe svegliato, Giovanni le disse che avrebbe voluto crederlo, ma che non poteva. Smise d’attendere, e uscì.
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