[vc_row type=”in_container” full_screen_row_position=”middle” scene_position=”center” text_color=”dark” text_align=”left” overlay_strength=”0.3″ shape_divider_position=”bottom”][vc_column column_padding=”no-extra-padding” column_padding_position=”all” background_color_opacity=”1″ background_hover_color_opacity=”1″ column_shadow=”none” column_border_radius=”none” width=”1/1″ tablet_text_alignment=”default” phone_text_alignment=”default” column_border_width=”none” column_border_style=”solid”][vc_column_text]di Daniela Esposito, Professore Ordinario di Restauro Architettonico, Direttore della Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio
Il castrum Caetani sorto sul mausoleo di Cecilia Metella, al terzo miglio della via Appia, rappresenta un caso che, se per alcuni versi si attiene al processo di trasformazione dell’insediamento duecentesco della Campagna Romana, per altri si mostra del tutto eccezionale.
Sembra dunque che, anche in questo caso, come in quello di Ninfa e Sermoneta, i Caetani abbiano svolto un’intensa attività di acquisizione, trasformazione e ampliamento di strutture di un insediamento preesistente. A Capodibove essi si trovarono di fronte a un casale situato a poca distanza dalle mura della città, a una residenza rurale appartenuta a una famiglia del ceto nobiliare cittadino romano. Il processo di acquisizione, ripresa e ‘ammodernamento’ di un tale insediamento nel territorio del districtus Urbis è un aspetto dell’avvicinamento della famiglia Caetani a Roma, culminato, come già detto, con l’acquisto della Torre delle Milizie nel 1301. Anche l’eccezionalità dell’ubicazione del castello, a meno di cinque chilometri da Roma (rispetto alla norma che vede collocate tali fondazioni almeno a dieci-dodici chilometri dalla città, può essere spiegata proprio attraverso la volontà politica della famiglia Caetani, sostenuta dal papa Bonifacio VIII. Solo la forza politica di quel pontefice poteva favorire la creazione di un castello così prossimo alla città, una scelta altrimenti in contrasto con le intenzioni e le aspettative del comune romano fra la fine del Duecento e i primi anni del secolo successivo.
Nel corso dei decenni centrali del Duecento il Monumentum Pescutum o Peczutum, il mausoleo di Cecilia Metella, fu interessato dal processo di ‘incasalamento’, con costruzione di una residenza rurale di proprietà di una famiglia romana, i Gabelluti. Una serie di quindici documenti permettono di ricostruire le fasi dell’acquisto del casale Caputbovis et Caputvacce da parte della famiglia Caetani nei mesi di marzo e aprile 1302, nonché di inserire l’insediamento fortificato, con piccolo abitato, dei Caetani presso la tomba di Cecilia Metella nel più generale contesto dell’occupazione del suolo nell’Agro Romano dei secoli XIII-XIV. In poco più di un anno Capodibove era già divenuto un castrum, con una propria comunità residente e bisognosa dei consueti servizi religiosi che si svolgevano nella chiesa di San Nicola, consacrata proprio nel 1302 e che, con la sua costruzione sancì, di fatto, la trasformazione di un’azienda agricola duecentesca in un abitato fortificato dotato di un cospicuo numero di abitanti e della relativa giurisdizione.
La tempestosa e contrastata vita di Bonifacio VIII si concluse l’11 ottobre 1303, solo pochi mesi dopo il compimento dei lavori per la residenza di Capodibove. Quest’ultima, negli anni immediatamente successivi, fu teatro di alcuni eventi bellici. Nel 1312, quando essa era divenuta roccaforte della famiglia Savelli, si ha notizia di un conflitto fra questi contro Enrico VII sostenuto dai Colonna. La residenza continuò per un certo periodo ad essere utilizzata come punto di appoggio per la sosta degli imperatori e dei loro eserciti, lungo i viaggi da e verso Napoli. Per esempio nel 1406 si ha notizia di una notte trascorsa da Paolo Orsini durante il viaggio per Napoli per trattare la pace con il re Ladislao. Nel 1482 durante la guerra fra il papa Sisto IV e Ferdinando I di Napoli, la sfilata dell’esercito di Roberto Malatesta passò ante palatium extra portam Appiam iuxta Capita Bovis, prope rivum qui dicitur la Marmorea. Due anni dopo, trovando il monumento abbandonato, esso venne occupato dagli Orsini, i quali ne vennero cacciati dalle truppe del papa Innocenzo VIII che vi si accamparono, durante la guerra contro Marino.
Il castrum è chiuso da una cinta muraria quadrangolare, con andamento longitudinale e con salienti sporgenti in un rapporto lunghezza-profondità parti a 2:1 – 1,5:1 circa. Tali caratteri, comuni a numerosi esempi riscontrabili in area romana in fondazioni castrensi due-trecentesche e riferibili ai lontani esempi dei castra romani, sono da mettere in relazione sia con la natura pianeggiante dell’area su cui sorge, sia con le ragioni difensive che richiedevano, per una buona difesa radente delle mura e il tiro incrociato, la presenza di torrette sporgenti con solai intermedi interni.
L’attuale assetto dei resti del castrum Caetani, restaurati di recente a cura della Soprintendenza archeologica di Roma, mantiene, in gran parte, la configurazione dei ruderi così come si era consolidata fin dall’epoca moderna. Dopo la sistemazione del tratto della via Appia nel XIX secolo, gli interventi di restauro condotti nei primi anni del XX secolo da Giovanni Battista Giovenale e da Antonio Muñoz, rispettivamente sulla chiesa e sul palazzo, sono stati condotti con metodologia in linea con le prescrizioni conservative e filologico-scientifiche elaborate nell’ambito del IV Congresso degli ingegneri e architetti italiani, tenutosi a Roma nel 1883, e divulgate in forma sistematica da Camillo Boito in Questioni pratiche di Belle Arti.
Secondo tale impostazione teoretica e di metodo, le reintegrazioni murarie sulla sommità dei muri perimetrali e sui contrafforti della chiesa di San Nicola sono ben riconoscibili; queste sono realizzate con blocchetti di tufo poco più alti di quelli originali e allettati con malta di calce e pozzolana rossa a grana fine, dal caratteristico colore rosato, distinguibile anche visivamente da quella originale, quest’ultima a base di calce, pozzolana rossa a grana media e fine e piccole parti di tufo. Così anche gli archetti ogivali delle monofore della medesima chiesa sono reintegrati e, in parte, ricostruiti con mattoni di nuova produzione; l’ingresso principale e l’accesso laterale, sul fianco sud-est, risultano rispettivamente tamponato e reintegrato con bozze irregolari di lava leucititica e malta pozzolanica, caratterizzata sempre dal tipico colore rosato della malta di restauro. Analogo criterio della distinguibilità degli interventi di restauro è seguito nelle reintegrazioni delle strutture del palatium come, ad esempio, nelle bifore dei fronti orientale e occidentale, realizzate, sulla base di alcuni resti presenti prima dei restauri sul fronte orientale, con reintegrazioni di marmo lavorate con sagome semplificate.
L’analisi delle testimonianze materiali dell’insediamento, situato lungo la via Appia, pone in evidenza quanto la documentazione e le fonti scritte lasciano ipotizzare: l’esistenza di una successione di fasi costruttive dell’insediamento rurale trasformato in castrum e quindi nuovamente ricondotto a casale, cronologicamente piuttosto ravvicinate, evidenti nella lettura ‘diretta’ delle strutture materiali e delle architetture dell’insediamento. La tecnica costruttiva impiegata nella realizzazione della cinta muraria del castrum è costituita da una muratura con paramenti in blocchetti di tufo e bozze e bozzette di materiali di reimpiego come marmo, lava, calcare, travertino, e nucleo in conglomerato cementizio.
All’interno della cinta sorgevano le case dell’abitato, oggi non più visibili, il palazzo, con cisterna e cortile interni, la chiesa. Questa è ad aula unica, con facciata rettilinea e campanile a vela; i fianchi sono contrastati da contrafforti, fra i quali si alternano monofore sormontate da archi ogivali con finestre con profilo marmoreo trilobato. L’abside è ampia e sporge sul fronte posteriore. All’interno, lo spazio della navata era scandito da archi trasversali poggianti su mensole scolpite. Gli studi condotti da Marina Righetti Tosti-Croce segnalano il riferimento a stilemi architettonici angioini, in particolare, ad esempio, per il motivo del profilo trilobato con lobo superiore più alto rispetto ai laterali, di derivazione francese e riscontrabile nella chiesa di Santa Chiara di Napoli, o alla particolare soluzione stilistica dei peducci d’appoggio dei costoloni.
Il palazzo, sul lato destro della via Appia dirigendosi verso Roma, è costituito da quattro ambienti disposti a “L” a ridosso del mausoleo di Cecilia Metella, con un cortile centrale; da qui partiva una scala che permetteva l’accesso agli ambienti dei due livelli superiori, che avevano una distribuzione simile a quella del piano terra. Dal piano terra, un ambiente aperto sul lato orientale del cortile con un ampio arcone a tutto sesto era illuminato da due piccole finestre rettangolari e, al piano superiore, uno spazio delle medesime dimensioni si apriva, con un grande balcone, a est, verso la campagna, e, con un altro, a ovest, e comunicava con un piccolo ambiente di servizio ricavato nell’andito triangolare di risulta fra l’ambiente medesimo e il corpo del. Bifore con cornici marmoree trilobate illuminavano gli altri tre ambienti al primo livello, forse camere private della famiglia residente, con camini. Gli ambienti del primo livello erano serviti da due porte con cornici marmoree e piccoli capitelli modanati e avevano fronti con coronamento a ‘gradoni’, come nella Sala dei Baroni nel castello di Sermoneta, sempre ad opera dei Caetani, così come ricostruita da Gelasio Caetani sulla base dell’affresco di Benozzo Gozzoli, situato nella chiesa di Santa Maria Assunta a Sermoneta.
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