Soggiorno letterario 2024, i racconti degli studenti della Holden

I ragazzi della Scuola Holden con Clemente Pernarella, Andrea Tarabbia, il presidente Massimo Amodio e a sinistra il presidente dei Parchi Letterari Stanislao De Marsanich

Pubblichiamo i racconti degli studenti della Scuola Holden che sono stati ospiti al Giardino di Ninfa da giovedì 9 maggio a domenica 12 maggio 2024 per la quarta edizione del Soggiorno Letterario. I lavori, presentati nel corso di un reading che si è tenuto sabato 11 nei locali della sagrestia di San Giovanni, all’interno del Giardino di Ninfa, sono di Alice Ferretti, Francesca Pozzo, Margherita Maione e Niccolò Favilli. Il tema di indagine scelto quest’anno è “La natura del domani”: un argomento legato anche momento speciale che il giardino sta vivendo grazie alle attività svolte con il progetto Pnrr che ha come titolo “Il Giardino di Ninfa: dalla memoria del passato alla nuova resilienza e sostenibilità”. L’introduzione ai racconti è di Andrea Tarabbia, scrittore e docente che ha accompagnato i ragazzi durante questa esperienza.

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Da quattro anni, grazie alla collaborazione con la Fondazione Roffredo Caetani, la Scuola Holden porta a Ninfa, per una breve residenza, alcuni studenti; per qualche giorno, i ragazzi e le ragazze ospiti sono liberi di girare per il Giardino, di osservare le piante e le rovine, di chiacchierare con i giardinieri; ascoltano alcune delle migliaia di storie che questo posto si porta dietro, dai progetti di bonifica all’installazione delle turbine per produrre energia, dall’impianto di alberi tropicali alle passeggiate che certi scrittori del passato, ospiti come loro del Giardino, hanno fatto lungo questi viali e sotto queste fronde; come si dice, si lasciano ispirare dal luogo e dalle suggestioni che trasuda. Poi, ciascuno di loro sceglie, tra tutte le storie possibili, quella che più gli assomiglia, e scrive.

Ogni volta, grazie al lavoro di Daniele Vicario e Clemente Pernarella, diamo ai ragazzi un tema, o meglio, una suggestione su cui lavorare: quest’anno, per il soggiorno che si è tenuto tra il  9 e l’11 maggio, la suggestione che abbiamo lanciato partiva da alcuni scritti di Italo Calvino e aveva a che fare con La natura del domani – tema amplissimo e affascinante, che abbraccia molti aspetti del rapporto che l’uomo intrattiene con il pianeta, ma che contiene anche un’idea di futuro, di mondi possibili.

I racconti che seguono sono il frutto di alcune giornate di lavoro intenso ed emozionante: Niccolò Favilli ha seguito la vita e il lavoro di un gruppo di scarriolanti ai tempi della bonifica, ne ha raccontato le sveglie e i viaggi e le fatiche, ma non si è fermato a questo: ha intravisto un domani, che per noi è oggi, in cui ci sono altri scarriolanti che hanno nomi esotici, provengono da luoghi lontani e vivono però della stessa fatica; Francesca Pozzo ha visto una bambina che ha vissuto nel Giardino e lo ha dipinto, e diventando adulta ne ha modificato la forma, perché aveva il potere di piegare il mondo ai propri desideri: ma, ecco, facendolo ha compreso che ogni scelta che facciamo si porta dietro un carico di dolore e di responsabilità; non è il Giardino di Ninfa, quello immaginato da Alice Ferretti: è un giardino che potrebbe essere Ninfa, ma che è invece tutti i giardini dove gli uomini hanno creduto – e credono – di poter giocare a fare Dio piegando la natura ai propri desideri e capricci, senza tenere conto che, prima o poi, la natura si riprende gli spazi che le sono stati tolti; c’è infine un bambino il domani per antonomasia – nell’ultimo racconto, quello di Margherita Maione, ci sono alberi e formiche e un’infanzia spensierata, e c’è un incontro, carico di significato e di bellezza, con un uomo bizzarro che sbuccia un’arancia mentre sta a mollo nel fiume gelido di Ninfa. Chi è, e perché sta lì, sta a voi lettori scoprirlo.

Non mi resta che ringraziare chi, ancora una volta, ha reso possibile e piacevole questa residenza: lo staff della Fondazione Caetani e quello della Scuola Holden.

Buona lettura, ci vediamo il prossimo anno

Andrea Tarabbia

I racconti

Francesca Pozzo

Salici recisi

La prima volta che mi sono accorta del dolore, è stato il giardino a mostrarmelo. Stavo camminando verso il castello, accompagnata solo dal battere delle mie suole sulla ghiaia e dall’impressione che ogni cosa intorno a me stesse trattenendo il respiro. Il frusciare delle lucertole dietro i cespugli era sparito, nell’aria nessun cinguettio di uccello. Affrettai il passo senza smettere di sondare il terreno, alla ricerca di un segno che scacciasse la sensazione strana che mi montava dentro. Una fila di formiche, l’ondeggiare dei fili d’erba: sarebbe bastato poco per scongiurare quella strana parvenza di immobilità. Oramai ero arrivata alla piccola cascata d’acqua lungo le rovine. Il suono, sempre più vicino, mi aveva rasserenata: il lento scrosciare sussurrava, nonostante la natura avesse deciso di ammutolirsi. Oltre l’antico ninfeo, solo voci umane; gli adulti parlottavano, come sempre e io da poco avevo iniziato a interessarmi alle loro discussioni. Prima preferivo disegnare nel salone, accanto alla seconda finestra. Da lì potevo perdere lo sguardo nel verde, apprezzare i giochi di luce al di là del vetro e immaginare che la distesa di salici sul fiume prima o poi avrebbe trovato consolazione. Ogni volta che li guardavo mi convincevo che prima o poi avrebbero tirato su la testa dall’acqua, scuotendo le gocce dai capelli bagnati per svelare il viso al sole. Sulla carta avevo provato a replicare la mia idea, abbozzando il movimento delle chiome verso il cielo: uno scarabocchio degno di una che aveva appena iniziato a tenere in mano la matita. Non era però passato inosservato a mia madre che aveva fissato la pagina e si era intenerita di fronte alle mie speranze e al tentativo di tradurle in realtà.

“Lelia, magari funzionasse così…” mi aveva detto. Poi aveva aggiunto che, anche se confusionario, trovava il mio tratto interessante. Avrei preferito lo avesse semplicemente definito “bello”, ma solo molto tempo dopo ho capito che l’aveva fatto, a modo suo: la mattina seguente una tela mi era stata recapitata in camera.

Il suo affetto, quello più autentico, lo esprimeva in silenzio. E così ha fatto anche quel pomeriggio, quando il chiacchiericcio dei giardinieri e le sue direttive hanno infranto la quiete. Parlavano tutti della magnolia: presto avrebbe creato problemi, con quel ramo che si stava allungando troppo. I boccioli invece si stavano aprendo, affacciandosi nella tarda primavera con le loro diverse gradazioni di rosa. Intenso alla base e man mano più chiaro, fino a sfumare.

“Se continua così, bloccherà il passaggio” ha aggiunto il più anziano dei due “sarebbe d’intralcio anche per gli ospiti”. Di fianco, l’apprendista annuiva e la magnolia cresceva, imperterrita, al di là dei loro discorsi. Immaginavo le sue radici ancorarsi alla terra, nutrirsi dei suoi minerali, catturare i raggi con le fronde lucenti. Diventava sempre più alta, come era successo a me nell’arco di una notte. All’epoca ero convinta di essermi messa a dormire e poi di essere scesa dal letto con dieci centimetri in più. Nessuno della mia famiglia ci aveva fatto caso, ma io continuo a ricordare l’imbarazzo di quel periodo, la convinzione improvvisa di essere troppo alta per i miei undici anni. Lunga e sottile, acerba nei modi e poco aggraziata nell’andatura: già allora sapevo che non sarei riuscita a portare la mia statura come le signore che frequentavano i salotti di casa nostra. Sfiorando il tronco pensavo ai loro abiti in seta, alle increspature che formavano sui loro corpi eleganti e sentivo la corteccia sfaldarsi fra le dita. Poi ci ho poggiato il palmo sopra, alla ricerca di un battito che mi permettesse di ripercorrere i contorni del mio ricordo, sovrastando il brusio alle mie spalle.

“È il caso di potare”, ha concluso il ragazzo.

Doveva essere la frase finale del discorso, la soluzione del problema. L’ho capito dal tono, inciampato sulle ultime lettere, come a mettere un punto.

“Potare?” ho ripetuto io.

I due hanno annuito, spiegando che era necessario. Sarebbe stata solo quella parte, un taglio deciso in modo da non affaticare la pianta. Avrebbero tenuto lo strumento entrambi, da un lato e dall’altro, per fare il più in fretta possibile. Un segaccio giaceva ai loro piedi, una lama dai tanti denti appuntiti; io ho spostato le pupille dal metallo a mia madre, inorridita.

“Non ti preoccupare” mi ha rassicurata “non soffrirà”. Eppure l’albero si protendeva alle mie spalle: ero sicura di percepirlo che si sbracciava, disperato, in una richiesta di aiuto.

“Potremmo spostare il sentiero” ho proposto.

Loro hanno ripreso a parlare, scuotendo la testa. Sarebbe stato troppo complicato, per non dire anti-economico. Bisognava aprire una nuova porzione sterrata e ricoprire quella vecchia con il prato: inutile, insomma, e soprattutto un processo molto più lungo rispetto al semplice lavoro di quattro braccia. Avrei voluto ribattere, ma non avevo nessun argomento a disposizione. E lì ho incontrato il tocco di mia madre, leggero, sulla spalla e nella sua espressione un invito a tornare a casa: se ne sarebbe occupata lei. Mentre mi allontanavo, ho proseguito lungo il ruscello che dissetava i nostri salici, delusa dalla mia stessa debolezza. Non avevo fatto abbastanza ed ero riuscita a piangere solo dopo. Quando ho varcato la porta della mia stanza sono incappata nel vuoto bianco sul cavalletto e ho deciso di riempirlo. Avrei messo in salvo quel ramo, dipingendolo maestoso, irrobustito. Sarebbe sopravvissuto e sullo sfondo gli altri arbusti avrebbero levato il capo al cielo, come girasoli.

Quel giorno di inizio giugno il ramo è stato graziato e io non ho avuto bisogno di continuare quel quadro. Però non ho mai smesso di dipingere: scorcio per scorcio, ho progettato tutto il giardino. Con ogni pennellata ho piegato il mondo al mio desiderio. I germogli raccolti in ogni viaggio sono diventati la nostra memoria, la loro disposizione sulle zolle il mio ultimo spazio in cui abitare. Il selciato è stato spostato qualche metro più in là, a vederlo oggi nessuno direbbe che prima era prossimo al torrente. La magnolia ha continuato a crescere, sbilanciata da un lato. Quando ci passo accanto, la sua ombra sembra cingermi in un abbraccio e io, come un tempo, mi fermo a cercare fra le sue chiome qualche gemma nascosta. I giardinieri mi chiamano ancora Principessa, eseguono i miei ordini, curano la mia storia; abbassano il capo, in segno di rispetto e tenerezza per l’ultima superstite dei loro protettori. Ma nel momento in cui mi trovano qui sotto, i lati delle loro bocche si increspano, come se anche loro nei pressi di quest’albero percepissero qualcosa di diverso. Ammirare i suoi fiori mi porta indietro, anche se la mia famiglia è morta con i suoi salici. Anno dopo anno si sono seccati, le foglie sono cadute rivelando piccole macchie sul legno. Ferite da rimarginare. E i miei occhi nel mentre sono invecchiati, non riescono più a rendere questo angolo diverso da come è. Quando do l’ordine di abbatterli non riesco ad assistere, anche se desidero piantare nuovi semi. Ma mentre rifletto mi sembra di avvertire qualcuno sfiorarmi e mi rincuoro sapendo che, in verità, ciò che c’è di vivo qui non può essere tagliato.

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Niccolò Favilli

Paradiso in prestito

Io, Augusto e i suoi figli veniamo giù dal monte in fila indiana. L’ho notato due giorni fa che chinato sulla sua bicicletta scassata, dai freni consumati quanto le gomme, col volto grigio e gli occhi ingialliti che paiono due tuorli d’uovo e le mani nervose, punta i gomiti alle costole per il freddo. Di tanto in tanto rallenta e tocca al maggiore dei figli, Cesare, rimbeccarlo e indicargli la via picchiettandolo sul cranio spelato o battendo forte le mani tra loro. Io rincaro la dose, gli dico che bisogna fare in fretta, se arriviamo tardi ci soffiano il posto e bisogna aspettare la settimana dopo per lavorare e lo vedo che si accende come una miccia e s’irrobustisce tutto e accelera d’improvviso fino a superarmi e capeggiare i successivi ottocento metri per poi farsi da parte, tornare accanto a Pietro, il suo minore, quello che porta gli attrezzi in spalla e in sella, quello che chiude la fila in silenzio. Dal fondo Augusto bisbiglia. Per tutto il viaggio e durante il lavoro, bisbiglia. È un ronzio che si somma a quello della palude. Immersi nell’acqua salmastra, con carriole e pale e pale e carriole lo sento che dice È il padrone, è il padrone che è malato. Ha la febbre, ripete sottovoce, Una febbre curiosa, una che non lo tiene fermo. Vede le nuvole in cielo e sotto il nulla e immagina cipressi, lecci e faggi e rose, tante rose, tutte diverse, che s’inerpicano sulle rovine dallo sfondo verde, e io lo guardo mentre dice che è malato e lo sento mentre lo ripete con le gambe immerse nella torba. È malato. È malato. È malato. Se il Signore voleva fare della palude un giardino non la faceva così grossa.

Lunedì a lavorare con noi ci sono gli aratri a vapore. Sbuffano e brontolano, ci seguono e ci assordano e le zanzare se ne approfittano e ci cacciano, sono affamate del sangue nostro e dei nostri figli. Il padrone e l’ingegnere ci indicano la zona da lavorare. Io, Augusto, Cesare e Pietro che abbiamo già abbattuto le querce e dissodato il terreno, stiamo in basso coi tanti ad ascoltare le parole del padrone e dell’ingegnere che stanno in alto, con gli aratri e quelli che le sanno muovere. Come al solito spaliamo e portiamo via terra senza sosta che quando c’è un vuoto subito si riempie e se si riempie dobbiamo spalare daccapo, ma non finiamo mai di spalare e ore dopo ci guardiamo intorno sperduti e con le vanghe a terra abbiamo le spalle decorate d’argilla ed erbacce e rovi, per questo, dicono, il padrone e l’ingegnere hanno portato l’aratro a vapore, per fare più in fretta, quella fa cento uomini in mezza giornata. Prendono i più giovani per dargli da mangiare, Cesare e Pietro e pochi altri che lo imboccano, che rimpinzano di carbone lui e tutti i trattori che lo tirano con la fune. L’aratro s’accende, nitrisce e gorgoglia, brucia carbone e lascia solchi profondi in terra; un omone lo guida, una mano, rigida, che tira le briglie, l’altra, agile, che lo manda avanti. Lo porta a scavare un giardino, in mezzo alla palude. In mezzo al nulla, bisbiglia Augusto appoggiato alla vanga. Lo vedo stanco, testa incassata, spalle curve e rotonde. Dice gli è salita la nausea. Ha la bocca impastata ed è prossimo al vomito. È colpa del nulla, e indica intorno a sé con un gesto annoiato.

E io lo guardo questo nulla. Lo guardo e lo lavoro, che lentamente, giorno dopo giorno, prende un ordine e un senso e una forma. Provo a guardarlo da lontano, oppure dall’alto dei monti. A volte, dopo il lavoro, mentre torno a casa in bicicletta, mando avanti Cesare per qualche chilometro e mi metto in fondo alla fila, accanto a Pietro, e guardo il nulla giocando a trovare le differenze col giorno prima. Anche quando Augusto non può più guardarlo, io continuo a guardarlo.

In poco tempo il padrone, l’ingegnere, tracciano linee di confine per tutta la palude e noi la seguiamo devoti, come formiche. Sono confini tremolanti, ricordano l’andamento dei piccoli fiumi e dei ruscelli sul monte, ma sul letto ci sono ancora i segni degli stivali, l’impronta dei nostri. Le disegnano il padrone, l’ingegnere. Tutti parlano sempre di questo giardino. Tra noi che lavoriamo, i più giovani parlano di giardino. Puntano le piscine che si restringono, le piccole isolette di terra che sbucano qua e là, le rovine di cui scopriamo le fondamenta. Anche quando gli aratri a vapore spariscono e non si sente più il ronzio delle zanzare solleticare le orecchie, parlano di giardino. Io mi chiedo perché andiamo avanti. Cesare e Pietro mi dicono di portare pazienza, che presto tutto intorno a noi, non solo qui, sarà così, l’hanno sentito dire al padrone e all’ingegnere e alla moglie, arriverà il giardino e gli operai rimetteranno tutto in sesto e le rovine si faranno casa e la terra sarà di nuovo buona, e noi dovremo solo insegnargli a fare il pane, a passare l’aratro, ad allevare il bestiame ed ecco che tutto sarà fecondo, ma la fatica mi rende cieco, ho i paraocchi a forza di spalare, forse sto diventando anche sordo, non capisco il senso delle loro parole: l’acqua, il ruscello, il padrone, l’ingegnere e sua moglie. Loro stanno accanto ai cipressi, i lecci, i faggi, le rose e ancora altre rose, altri cipressi, altri faggi e altri lecci.

Questa sera mentre torniamo a casa mi fermo nel punto più alto dei monti, scendo dalla bicicletta, dico a Cesare e a Pietro che sono stanco e che ho bisogno di un momento, loro possono andare a casa per conto loro, io arriverò, prima c’è una cosa che devo fare.

Vedere il nulla.

Non so bene cosa vedono loro.

Non so bene cosa dovrei vedere.

Mi premo i palmi contro gli occhi.

Immagino il giardino.

Le parole del padrone come guida.

Sommo le cose a cui arrivo con gli occhi a quelle a cui non arrivo con la testa.

Poi lo intravedo.

Si chiama Mukesh. Arriva ai terreni in bicicletta. Ha dormito in una baracca senza finestre in mezzo ai campi. Dall’alba al tramonto, dalle quattro di mattina a sera inoltrata. È magro, indebitato per un visto, le mani appiccicose, piene di piccoli tagli che non fanno in tempo a rimarginarsi che ne arrivano altri. Sta in sella e guarda torvo i kiwi. Se esce dalla baracca incespica come fosse ubriaco. Se fa cena, si addormenta a tavola. Se dorme, si butta a letto, mani sul petto come i morti. Il giorno prima di partire per l’Italia il padre lo accompagna al mercato a comprarsi i vestiti, poi lo benedice e lo manda via prima di cambiare idea. Al suo arrivo un amico lo porta nei campi. Lavora così per un po’ di tempo. Sei mesi, circa. Forse un anno. Sempre la stessa tratta. Lavoro, baracca. Baracca, lavoro.

Una sera un altro bracciante come lui ha fame e prova a catturare uno scoiattolo, ma lo scoiattolo è più veloce e raggiunge in fretta un albero di kiwi. Ci si avventa contro, lo prende a calci con tutto se stesso. La bocca gli si gonfia di rosso per lo sforzo. Mukesh pensa che se il bracciante parla, potrebbe esplodergli la testa. Avvinghiato all’albero il bracciante serra la mascella e lo scuote impazzito. Le foglie gli piovono intorno.

Mukesh ride.

Poi lo perdo.

Non vedo più niente.

La settimana dopo Cesare e Pietro non sono a casa. È inutile che busso, che urlo dicendogli che se arriviamo tardi non ci pagano, loro non lavorano più, non aspettano più il giardino. Hanno venduto tutto: la casa, quei pochi terreni guadagnati bonificando, addirittura le biciclette scassate. Si sono spostati in città. Vogliamo tornare a studiare, dice Cesare, vogliamo un giardino tutto nostro, le macchine al posto delle biciclette. È la montagna che si spoglia. Uno a uno vanno via, ci lasciano indietro, a guardarli dall’alto. Tempo un anno e Cesare e Pietro e tutti i più giovani hanno case lontane, oltre i monti. Sradicati, s’innestano in città e parlano di cose che non conosco. Vogliono essere puliti, smettere gli stivali e camminare senza il peso del fango. Sostituire il nulla con un giardino smisurato.

Li sento valutare.

Quando tornano qui, tra le paludi.

Portano piante nuove dai loro viaggi. Alberi rossi che si attorcigliano su se stessi. Alberi a tubo che crescono più in fretta di quanto si possano tagliare. Dicono che sono loro le piante. Che con quello riempiranno il nulla.

Dicono che quel nulla è loro, comunque loro e che è sempre stato loro.

Che noi l’abbiamo solo messo in ordine.

Preso in prestito.

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Margherita Maione

Come le arance.

La prima volta che lo incontrò era un giovedì, e Fefè aveva sette anni. Sette e mezzo per la precisione.

Fu unestate importante, non solo per quellincontro, ma anche perché dopo anni di prove e osservazioni era finalmente riuscito a decretare il suo albero preferito del giardino ma forse anche del mondo: il pioppo nero. I fattori che avevano influito sulla vittoria erano principalmente tre.

Uno: era lalbero più grande che Fefè avesse mai visto. Sarà stato alto cinquanta, o forse anche ottanta, metri; va beh, di misure non se ne intendeva molto, ma comunque era gigante. Lì sotto ci si sentiva minuscoli, soprattutto se – come aveva recentemente decretato il metro di suo padre – a malapena superavi il metro e venti.

Due: dietro al suo tronco, nascosta a chiunque, si formava una conca in cui solo lui poteva nascondersi.

Tre, ma non meno importante: era lalbero preferito di suo padre. In quanto fattore e responsabile del giardino se ne intendeva, e quindi la sua opinione era sicuramente da tenere in considerazione.

Il padre non lavrebbe mai ammesso perché per lui, quegli alberi, erano come figli e, in quanto genitore, non avrebbe mai osato ferire gli altri; ma Fefè lo conosceva, e lo aveva capito. La pipì, infatti, tra tutti gli alberi del giardino, la faceva solo ed esclusivamente sul Grande pioppo; il suo caldo e silenzioso gesto damore per il  figlio prediletto.

Allo stesso modo, Fefè: dal giorno in cui laveva ufficialmente eletto albero preferito del giardino ma forse anche del mondo, non cera stata volta in cui, passando di lì, non si fosse fermato per dare un podel suo nettare dorato alla pianta. Così anche quel giovedì gli si avvicinò, si slacciò le bretelle della salopette e lo dissetò.

Quel giorno ne aveva parecchia, di pipì da dargli, e il suo getto era tanto forte da fargli rimbalzare schizzi tiepidi sui piedi. Fefè ne osservava orgoglioso la potenza quando si accorse che, proprio accanto a lui, ordinata, passava una fila di formiche tanto grandi che anche loro dovevano averne bevuta parecchia, di pipì.

Alcune trasportavano pezzetti di foglie, altre di petali rossi, altre ancora – un poculipesanti – nulla. Iniziò a mirarle.

Quelle, quando venivano colpite iniziavano a zampettare stordite, quasi inebriate, finché la terra non assorbiva completamente il liquido giallo; solo allora, diligenti, riuscivano a riprendere la marcia in quella fila senza fine.

Ormai curioso, si tirò su i pantaloni, e iniziò a seguirle.

Superato il Grande pioppo le accompagnò fino al muretto su cui iniziarono ad arrampicarsi; lui lo scavalcò ritrovandosi sul ponticello in pietra che a sua volta scavalcava il fiume. Lo percorsero fino al sentiero, dove cera laltro pioppo che non era né nero né gigante ma che aveva deciso di sposarsi con una rosa rossa, a cui aveva donato i suoi rami.

Era proprio sotto il pioppo innamorato, la loro casa: un piccolo buco nella terra.

Cercando di lasciare abbastanza spazio per farle passare, Fefè avvicinò locchio per guardarci dentro; ma lì dentro era tutto buio. Nemmeno una candela.

Rialzandosi, si scrollò di dosso la terra e qualche formica intenta a giocare ad acchiapparella sulla sua faccia, prima di slacciarsi di nuovo le bretelle. La vescica era ormai vuota ma chinandosi, sporgendo il bacino e scrollandosi un poriuscì a pisciare fuori qualche goccia; solo un paio entrarono nel buco, ma era sempre meglio di niente. Dopotutto erano formiche: un paio di gocce dovevano essere più che sufficienti per farne crescere una decina.

Non si era ancora rialzato le mutande dalle ginocchia, quando sentì il fischio. Arrivava dal fiume; gli bastò sporgersi appena oltre il pioppo innamorato per vedere luomo che stava cercando di attirare la sua attenzione.

Era uno degli uomini importanti che spesso venivano al giardino. Suo padre gli aveva spiegato che si trattava di scrittori: andavano lì per cercare ispirazione, o qualche cosa del genere. Fefè non aveva idea di cosa fosse lispirazione, ma era molto importante, a quanto aveva capito. Non bastavano suo padre e gli altri giardinieri: ci volevano anche quegli uomini, con la loro ispirazione, le loro storie e le loro parole, per far vivere il giardino.

A lui sembrava che quelli si limitassero a pelandrare da un posto allaltro; solo ogni tanto li vedeva prendere i loro taccuini e scarabocchiare qualcosa. Non facevano nemmeno la pipì sui loro alberi preferiti.

Luomo che gli fischiava dal fiume, però, sembrava diverso.

Se ne stava lì a mollo, incurante dellacqua gelida che gli scorreva attorno; stravaccato, con un braccio sulla riva e un cappello da signore, sorseggiava da un bicchiere stracolmo di una di quelle cose trasparenti che, nonostante linsopportabile odore di benzina, piacevano tanto agli adulti. Sembrava allegro e, non appena incrociò gli occhi del bambino, si mise a farfugliare parole incomprensibili.

Fefè si limitò a guardarlo con diffidenza, senza aprire bocca.

«Chiede se gli passi un frutto dallalbero lì dietro», spiegò un altro uomo. Nemmeno laveva notato, Fefè. Se ne stava lì accanto, sulla riva del fiume con i pantaloni risvoltati su grassi polpacci pelosi, i piedi a mollo nellacqua. Non aveva un cappello bello come laltro e i suoi vestiti erano vecchi e sudici ma anche lui doveva essere uno degli uomini importanti.

Fefè finì di allacciarsi le bretelle e andò a prendergli il frutto. Glielo lanciò mirando perfettamente il palmo della mano libera dal bicchiere.

«Cosa è questa?» chiese sforzandosi luomo con il cappello.

«Unarancia, cosa vuoi che sia?»

«Lo sa che è unarancia. Vuole che tu gliela descriva.»

Si avvicinò allalbero e prese un altro frutto, che iniziò a farsi passare tra le mani. Era unarancia, cosa doveva dire più di così?

«È rotonda», borbottò timido.

«Rotonda come?»

«Rotonda come una palla»

«E la palla come è rotonda?»

«Non ci hai mai giocato a palla?»

«Mai, non esistono dove vivo io»

«Oh, mi dispiace… beh, comunque, la palla può rotolare giù da qualsiasi discesa senza farsi mai troppo male».

Questa risposta lo soddisfece; la trascrisse con le mani bagnate sul suo taccuino e passò allodore.

«Ma gli odori non si possono descrivere. Odora di arancia e basta»

«Provaci»

«È dolce…»

«Dolce come? Come una caramella?»

«Ma no, come un frutto. È quel dolce che ti prende tutto il naso, fino agli occhi. Sa di estate e vacanza»

Luomo nel fiume si fermò un attimo, avvicinò il frutto al naso e sorrise mentre trascriveva le parole di Fefè. Era vero, odorava proprio di estate e vacanza.

«E la sua buccia? È liscia o ruvida?»

«Non è né liscia né ruvida» 

«E allora com’è?»

«Come il naso del fruttivendolo vicino a casa mia»

«Non lo conosco»

«Se vuoi dopo ti ci porto e te lo faccio vedere»

«Va bene… e il colore?»

«È arancione, arancione come lo scialle che mette la mamma alle feste»

«Ma io non lho mai visto»

«Allora… allora ha lo stesso colore che vorrebbe avere il cielo nelle sere destate».

Trascrisse anche questo, poi gli chiese il nome e la sua età. «Fefè», rispose lui, «e ho sette anni e mezzo», aggiunse mostrando tutte le dita della mano destra, e due e mezzo di quella sinistra. «E tu chi sei? Come ti chiami?»

«Truman.» fece luomo alzandosi il cappello e facendo un piccolo inchino con la testa. Era davvero un tipo buffo; non solo perché non sapeva di che colore fossero le arance o che forma avessero le palle. Certo, anche quello era strano, ma la cosa che divertiva di più Fefè era senza dubbio la sua voce da bambino incastrata in quel corpo di adulto; il fatto che non capisse cosa diceva non era poi tanto importante. Di nuovo, ci pensò luomo con i grossi polpacci pelosi a spiegarglielo: «Dice che aveva la tua età, quando ha iniziato a scrivere». Luomo con il cappello, di cui Fefè già non ricordava il nome, intanto mangiava la sua arancia, regalando le bucce alla corrente del fiume. «E poi dice che le storie, quelle belle, sono come unarancia. La natura, le arance, le ha fatte proprio bene, e nessuno potrebbe immaginarle in un altro modo. Così, se leggendo una storia, non puoi più immaginartela in maniera diversa, ecco allora quella è una bella storia. Le belle storie sono definitive, proprio come le arance».

Luomo con il cappello, nel frattempo, si ritrovava accerchiato e abbracciato dalle carpe, smaniose di altra buccia butterata come il naso del fruttivendolo. Per Fefè, però, era arrivato il momento di andarsene e di smetterla di disturbare quegli uomini importanti. Farfugliò un «capito», prima di correre verso il Grande pioppo e rintanarsi nella sua conca. In realtà non aveva capito, ma gli era piaciuto, quello strano signore amico delle carpe.

Forse a lui avrebbe dovuto spiegarlo che se aveva un albero preferito doveva farci la pipì sopra, perché a loro piace proprio come alle carpe piace la buccia delle arance.

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Alice Ferretti

Custodi

Caro fratello,

Per l’ultima volta, stanotte, salirò al Giardino.

Le mie gambe non sono più agili come un tempo e molte ore mi saranno necessarie per percorrere il sentiero che dal paese attraversa la valle e risale la collina. Tuttavia, sento l’avvicinarsi della fine e, nonostante la vecchiaia mi imponga il riposo, troppo forte è il senso di nostalgia.

Partirò non appena terminata questa lettera – perché parlarti un’ultima volta, scriverti quindi, è l’unico altro desiderio che mi resta; seppur io sappia che nessuna parola potrà raggiungerti nell’aldilà.

Salirò al Giardino e mi siederò sulla pietra un’ultima volta.

Se le forze me lo permetteranno, camminerò intorno ai “Cancelli”, le liane e i tronchi che sono cresciuti intorno a quellache un tempo è stata la nostra casa e ci separano da essa. Un’ultima volta piangerò il Giardino.

Ricordi le mattine trascorse all’ombra del glicine vicino a casa?

E il modo in cui i rampicanti solleticavano le persiane della nostra stanza da letto?

Mi trovo spesso a sognarci, ancora bambini, correre tra gli aceri rossi e rotolare sul Colle dei Meli, caldo in autunno e fresco di bianchi e di rosa nel mese di maggio.

Naturalmente, non rivedrò più gli scoiattoli nascondersi tra gli alti bambù, né il martin pescatore tuffarsi e risorgere dal fiume sotto l’alto ponte.

I “Cancelli” resteranno immobili e io trascorrerò le mie ultime ore sulla pietra dove hai passato molte giornate in preghiera.

Se potessi tornerei indietro, salirei la collina e supplicherei con te ogni giorno.

Forse, se così avessi fatto, il Giardino ci avrebbe perdonati e riaccolti.

Forse, invece di questa pietra, le radici del glicine sarebbero state la mia e la tua tomba.

Anche negli ultimi anni della tua vita salivi qui ogni giorno, ma la pietra non ti serviva più da inginocchiatoio: non speravi più che la preghiera valesse il perdono del Giardino. Non speravi più che ti rispondesse ancora. Uscivi di casa con la grande brocca, la riempivi al torrente che, di nuovo, finalmente, scorreva tra le case del paese, e risalivi la collina con quel vaso pieno. Bagnavi i“Cancelli”, le liane e i tronchi e i rovi che ci separavano dal Giardino. Tentavi, io credo, di riparare ai nostri sbagli: se non eri riuscito a proteggere e custodire il Giardino quando era stato il tuo compito, se l’uomo non ne era in grado, avresti aiutato la natura, così come potevi, a farlo.

Per generazioni ne siamo stati i custodi.

Abbiamo imparato le consistenze umide del limo e morbide del terreno, gli odori del legno e della pietra, quelli inebrianti dei pollini portati nell’aria dal vento e dalle api d’agosto. Il tempo e la dedizione hanno modificato i nostri corpi: come un bambino, crescendo, prende le forme e le pose del padre, così il Giardino ci ha trasmesso archi plantari nodosi, vene come solchi e sangue denso come linfa. La nostra famiglia un sistema di radici connesse sotto la terra del tempo, oltre la vita e la morte, per trasmettersi la conoscenza necessaria a continuare a custodirlo.

Una conoscenza che io, scherzo del fato, non ho ereditato.

È questo il mio rimpianto più grande: averti persuaso del mio errore, non averti ascoltato. Avevi ragione tu, fratello: avevamo tutto e non ci mancava niente.

Mi lasciai accecare dalla vanità della giovinezza e mi convinsi di aver trovato la luce, là dove stava il buio: una recinzione avrebbe protetto il Giardino, l’acqua della nostra fonte dagli altri uomini, paesani assetati che continuamente la reclamavano per le loro case, le loro strade e le loro terre e i loro figli.

Ricordi cosa ti dissi? «Una recinzione proteggerà la nostra fonte» e piantai pali d’acciaio per impedire agli altri uomini l’ingresso.

Non mi accontentai. Imparato a forgiare e saldare il metallo, trascorrevo ore all’interno dell’antico tempio delle ninfee: al ritmo frenetico e inebriante della scoperta mi inoltravo tra le possibilità dell’acciaio, del ferro e del piombo. In pochi mesi costruii le turbine: non solo avremmo protetto la fonte, ma per la prima volta avremmo portato alla massima potenzialità quell’acqua.

E così avvenne. Per qualche tempo la diga portò l’acqua alle turbine e le loro pale ruotando ne agitarono le correnti, trasformandone il movimento in energia. E l’energia dell’acqua… cosa non è l’energia dell’acqua: mentre fuori il mondo seccava, il Giardino cresceva rigoglioso.

Quel prodigio vinse persino le tue resistenze. I giardini cantavano, le carpe guizzavano aranciate sotto la superficie dei torrenti. Credevi che avrei presto aperto la recinzione al mondo e fornito a tutti le risorse necessarie a superare la siccità e l’inverno.

Ma io continuavo, imperterrita: creai un sistema di condotti e canali che portassero l’acqua al tempio. Dietro le sue porte chiuse, giorno e notte, l’acqua scorreva e il suo flusso, rimbombante e metallico in quei rami artificiali, scandiva l’incudine e il martello con cui battevo il metallo.

Avrei costruito macchine per sostituire i braccianti. Non saremmo più stati schiavi delle loro suole pesanti che calpestavano trifogli e fiori di campo. Non ci avrebbero più invasi per la stagione, allora imminente, del raccolto. Chiusa nella mia fucina, immaginavo modi per ridurre il tempo e la fatica, aumentando il profitto.

Non biasimo il Giardino per quello che avvenne dopo. Anche io mi sarei ribellata al suo posto. Quando le mie macchine disturbarono la terra con i loro tonfi e le  ruspe, il terreno franò su di esse. Il fiume, spaventato, cercò la fuga attraverso ogni sentiero, ogni campo, ogni stanza. L’acqua che avevo costretta alla diga invadeva ogni spazio, scardinava costruzioni. Sommerse il tempio. Anche la casa, infine, fu presa: allagata, crollò sulla recinzione di acciaio che le avevo imposto.

Quando ci risvegliammo, le macerie ci impedivano l’ingresso al Giardino. Eravamo stati esiliati, ridotti la fatica dei paesani che, con il tempo, scoprii doppia, tripla rispetto a quella che con le macchine avevo cercato di risparmiarci.

Per anni solo rabbia: verso il mondo, verso il Giardino, verso me stessa.

Una furia cieca e sconvolta sotto cui si annidava la consapevolezza inammissibile, inaccettabile del mio errore. Per mesi la tenni sotto controllo con il silenzio: le parole più vere e più belle non sarebbero sufficienti a ringraziarti per gli sforzi che facesti, per le lunghe conversazioni serali in cui, seduto su uno sgabello di fianco al mio letto, mi parlavi e imboccavi, cercando di consolarmi. Mi raccontavi del faggio vicino al mulino del paese, degli uccelli piccoli e grigi che sopravvivevano anche con i pochi frutti e semi rimasti, delle viti che nonostante la secchezza del terreno vi si aggrappavano e resistevano. Una stagione passò: le viti fruttarono il vino, l’acqua riprese a scorrere, il paese tornò alla vita di un tempo. E con la forza delle tue sole braccia mi trascinasti sulle strade battute dai passanti a vedere la vita e il trascorrere del giorno.

Ci vollero anni, ma in qualche modo il tempo riprese lo spazio dei miei silenzi. Mi convincesti a insegnare ai paesani l’arte dei metalli: tecnologie nuove e leggere, come i fili di ferro che sostengono il fusto delle viti, per supportare la natura nel suo quotidiano corso. Non ripresi mai in mano incudine e martello.

Solo ora, con l’approssimarsi della fine, comprendo la verità. Non è luogo degli uomini modificare il corso della natura, perché troppo brevi sono i nostri giorni e troppo deboli le nostre mani. E mentre stanotte, domani, la mia vita arriverà alla fine del suo percorso, i rami, le liane e il roveto continueranno a crescere attorno al Giardino. Sola davanti ai “Cancelli” che mi precludono anche la vista della mia casa affronterò la morte, mentre il Giardino, al sicuro in sé stesso, fiorisce tra le rovine e abbonda di api e di pollini.

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Qui il video del reading

Il soggiorno letterario organizzato dalla Fondazione Roffredo Caetani fa parte dei progetti del Parco Letterario Marguerite Chapin. Media partner il quotidiano La Repubblica. Grazie per la collaborazione e l’ospitalità a Molino ‘700.

(Testi: riproduzione riservata)