Ninfa, il soggiorno letterario degli studenti della Holden: i racconti

Pubblichiamo i racconti degli studenti della Scuola Holden che sono stati ospiti al Giardino di Ninfa lo scorso fine settimana. Gli scritti sono  di Letizia Bastonero, Fabio Savoini, Monica Acito e Beatrice Salvioni. L’introduzione è del docente che li ha accompagnati e supportati durante questa esperienza, il professor Andrea Tarabbia.

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Per noi della Scuola Holden, un’esperienza come quella che abbiamo fatto a Ninfa è un “gettone”: chiamiamo così le iniziative che permettono agli studenti di andare a portare le loro parole fuori dalla scuola. Così, ci sono gettoni che ci consentono di scrivere per la radio, altri che ci fanno visitare archivi, o andare nelle scuole, o partecipare a festival: ma finora, che io sappia, non c’era mai stato un gettone che portasse gli studenti in un luogo come Ninfa. Per quanto nei giorni precedenti sia io che i ragazzi ci fossimo documentati, anche grazie alla disponibilità di Clemente Pernarella e Daniele Vicario, per tutti noi trovarci in mezzo a quelle rovine meravigliose, vedere da vicino lo stupefacente florilegio di piante, ascoltare un po’ delle vite dei Caetani e della comunità che si era stretta loro attorno ci ha fatto sentire parte di un mondo altro, diverso, forse lontano eppure magico, pieno di fascino e di suggestione.

Letizia Bastonero, Beatrice Salvioni, Fabio Savoini e Monica Acito – questi i nomi degli allievi che sono stati a Ninfa con me – si sono da poco diplomati alla Scuola Holden: hanno concluso il loro percorso biennale, qualcuno ha già finito il libro che aveva in testa e ha trovato un editore, qualcun altro lo farà, si spera, a breve. Ognuno ha i suoi tempi e i suoi modi.

Questa piccola avventura che ci siamo regalati è stata per loro, da un lato, un modo per sentirsi ancora dentro la Scuola e, dall’altro, la prima vera occasione di “andare per il mondo” e di farlo con le proprie storie. Per qualche giorno abbiamo vagato per Ninfa, abbiamo ascoltato le sue storie, e poi abbiamo provato a restituire il favore nel modo che ci riesce meglio: scrivendo. Letizia è stata colpita dalla scritta che c’è sul camino del salone dei Caetani, e ha immaginato che Roffredo imparasse i suoni ascoltando ciò che il giardino ha da dire; Beatrice ha portato a Ninfa delle lavandaie, ne ha raccontato un momento, forse un pomeriggio: ma nella sua storia compare anche, fugacemente, Lelia Caetani; Fabio è stato sul Col di Lana insieme a Gelasio, e insieme a lui ha elaborato una colpa e cercato una redenzione, che si traduce in cura e amore per il giardino; infine Monica ha riportato a Ninfa un Benedetto Caetani ormai vecchio, che sembra sentire tutto il peso e, forse, la paura di ciò che è stato.

Non voglio dire di più. Tutte e quattro le storie sono molto belle, e soprattutto sono molto sentite: non era facile, in un paio di giorni, trovare gli spunti per scrivere, ma Ninfa è un luogo carico di uno strano incanto, una malia che afferra, turba, ispira e lascia cambiati.

Non mi resta che dire grazie: al Presidente Tommaso Agnoni, a Clemente e Daniele, e a tutte le persone che hanno reso indimenticabile questa esperienza. E, soprattutto, grazie a Letizia, Beatrice, Fabio e Monica: in bocca al lupo, ci vediamo in libreria.

Andrea Tarabbia

 

I racconti

Beatrice Salvioni

L’acqua ‘nze marìta

 

Era l’acqua a dirci quando eravamo arrivate. Si sentiva lo scroscio da lontano, quando la strada che scendeva dal paese cominciava a farsi più dolce e nelle narici ti entrava l’odore insostenibile delle magnolie.

Fu allora che, per la prima volta, Agata mi disse che se volevo, per quell’ultimo tratto la cesta la potevo portare io. Dovevo solo promettere di stare attenta a non farla cascare.

Giurai sulla mamma e sul Signore facendo in fretta il segno della croce e baciandomi le dita. Allora lei si tolse i panni dalla testa e disse: “Stai bella dritta, tienila su con la mano.”

Radrizzai la schiena e guardai avanti, in mezzo alle schiene delle altre donne del paese, che conoscevo tutte per nome e ancora mi chiamavano dunzèlla, anche se l’ultimo inverno avevo già fatto tredici anni. Avevano i fianchi che i troppi parti avevano allargato, nascosti dalle gonne che frusciavano tra le cosce e mostravano sotto le ascelle i segni del caldo. Cercavo di fare come loro che portavano in bilico sulla testa le loro ceste ricolme di lenzuola e mutandoni di lana, come se fosse niente. Intanto parlavano della Micheletta che si era appena sgravata, del matrimonio di Concettina e ridevano forte senza badare al caldo e alla fatica.

Mi piaceva quel peso che mi schiacciava i capelli e mi piegava il collo. Mi faceva sentire grande.
Agata era dietro di me, coi palmi aperti e le braccia tese, attenta nel caso inciampassi in una radice o in una buca della strada.

Superammo il cancello del giardino, aperto apposta per noi, e arrivammo al lavatoio. Le donne si sparsero sui muretti e sulle scale diroccate che circondavano la vasca, si tolsero i pesi dalla testa e si misero a sbattere i panni rigidi di sporco sulla roccia, fino a svuotare le ceste. Senza bisogno di indicare, ognuna si metteva al suo solito posto, come se ci avesse lasciato il segno con le ginocchia.

Agata mi aiutò a posare la cesta. Ci mettemmo nel nostro angolo, sotto lo stemma dei Signori con le aquile incoronate, facendoci spazio in mezzo all’erba alta che ogni giorno, anche se la schiacciavamo tutte le mattine con gli zoccoli, sembrava crescere sempre di più.

Guardavo Agata arrotolarsi le maniche oltre i gomiti e assicurarsi sotto la gola il nodo del fazzoletto azzurro che le nascondeva i capelli, facendo sfuggire dietro la nuca lunghe ciocche nere come la corteccia del faggio. “Fammi vedere, che voglio imparare” le dissi.

Sorrise, si mise i pugni sui fianchi e mi guardò. Anche così, con la schiena curva, la faccia accaldata e le ginocchia rovinate, era bellissima. Tanto bella che persino il figlio del farmacista le aveva chiesto la mano, anche se la mano di lui era liscia e bianca mentre quella di Agata aveva i calli, era rossa di fatica e sicuro l’anellino d’oro che le aveva dato ci sarebbe entrato solo a fatica.

Le altre donne parlavano male di lei, dicevano che se aspettava ancora e diceva sempre di no, poi nessuno se la sarebbe più pigliata. Ma lei ripeteva che era come l’acqua e “l’acqua ‘nze marìta.”

Agata mi fece un segno, io sollevai la gonna e feci come faceva lei: con le ginocchia nude contro la pietra rovente, le braccia ficcate nell’acqua per abituarsi al freddo. Prese una delle camicie di papà, annerita dalla polvere dell’officina e la buttò nell’acqua. Quella si gonfiò e parve sciogliersi quando lei ci cacciò dentro le mani per farla affondare. La sfregò contro la pietra e usò le nocche per grattar via le macchie. Dall’acqua imbiancata saliva l’odore pastoso del sapone. Tutt’intorno risuonavano le voci stonate delle altre donne che cantavano: “Come porti i capelli bella bionda, tu li porti alla bella marinara, tu li porti come l’onda.”

Agata tirò fuori la camicia dall’acqua, la sbattè contro il muretto, poi disse: “Prendi un capo e strizza forte.” Strinsi un lembo della camicia e presi ad arrotorarla nel modo in cui lo faceva lei. L’acqua filtrava tra le dita e sul dorso delle mani, sgocciolava gelida sui gomiti e schioccava contro la pietra lasciando grosse macchie scure. “Come se la dovessi strozzare” disse Agata. “Altrimenti non asciuga più. Ecco, così.”

Mentre Agata parlava, dal sentiero che portava alle rovine della chiesa di San Biagio, arrivò la donna che tutte chiamavano Signora e che pareva la Madonna anche se indossava un panciotto a quadri e larghi pantaloni da uomo sporchi di colore. Dietro di lei veniva Camillo, il figlio del guardiano, che portava sottobraccio il cavalletto, una grossa tela bianca e le scatole coi pennelli e le tempere. Camminava svelto, con il passo sicuro dei grandi. Aveva già la barba da uomo fatto anche se era nato solo due anni prima di me, l’autunno che c’era stata la grande piena e l’acqua aveva quasi portato via il ponte antico.

La Signora ci salutò agitando la mano. Aveva polsi sottili, dita delicate. Veniva presto perchè diceva che al mattino c’era la luce come piaceva a lei. Si metteva all’ombra del leccio, indicava a Camillo dove montare il cavalletto e mettere la tela. Poi iniziava a dipingere. Dipingeva il giardino e la luce che si rifletteva sull’acqua. A volte dipingeva noi. L’estate prima mi aveva portato le arance in cambio del gioco delle belle statuine. Dovevo solo stare ben ferma così poi lei mi poteva fare uguale uguale sulla tela e appendermi a una parete perchè ero così bella, diceva. Io bella non mi ero mai vista. Quella bella in famiglia era sempre stata Agata. Lo diceva anche mamma quando la domenica, prima della messa, la pettinava davanti allo specchio. Eppure quella donna con la tempera sotto le unghie mi aveva guardato per tutto il pomeriggio e alla fine aveva detto: “Bella come una ninfa.”

Ma io adesso non guardavo lei. Guardavo Camillo che piantava il cavalletto e sistemava lo sgabello stando ben attento a metterlo nel punto in cui non arrivava il sole.

Camillo aveva le braccia forti, screpolate dal sole, i palmi pieni dei tagli che gli facevano i rovi quando aiutava il padre a potare la grande rosa che si arrampicava tra le rovine. Si chiamava così in onore del fratello della Signora, che era andato in guerra a pilotare gli aerei e non aveva neanche avuto bisogno di un angelo che lo portasse in cielo perchè era già lì quando l’avevano ammazzato.

La Signora accarezzò Camillo tra i capelli, disse “Grazie, va bene così”. Allora lui venne verso il lavatoio e mi cercò con lo sguardo. Mi salutò e lo stomaco mi si contrasse come le volte che saltavo la colazione.

“Vai a giocare, va” disse Agata dandomi una gomitata dentro un fianco e lasciandomi sulla veste un alone di acqua gelata. “che per fare le cose da grandi c’è sempre tempo.”

Io nascosi le guance contro i pugni, dissi: “Va bene” prima di mettermi a correre tenendo sollevata la gonna e facendo risuonare gli zoccoli contro le pietre.

“Andiamo nel giardino dei pompelmi?” mi disse Camillo quando lo raggiunsi, con il cuore che mi batteva dappertutto e il respiro in fondo alla gola.

“Non si può” gli dissi. “Lo sai che è vietato.”

Lui rise, fece cadere indietro la testa e mi chiamò “Pimpinèlla”, come si dice dei bambini piccoli che tengono paura. Allora misi i pugni sui fianchi, dissi che paura non ne avevo, che potevamo arrampicarci anche in cima alla torre e camminare in bilico sui tetti come fanno i corvi.

Lui mi prese la mano che avevo ancora molle e raggrizita dall’acqua del lavatorio. Disse “Andiamo”.

Lo seguii fino al cancello che divideva quella parte del giardino dal campo degli agrumi. C’era un grosso catenaccio rugginoso e il muro era alto. “Scommetto che non c’hai il coraggio.”

Avevo le gambe molli come coratella, ma dissi solo: “Invece ci vado per prima.”

Mi tolsi gli zoccoli, uno con la punta dell’altro, poi mi misi ad arrampicarmi facendo forza con le braccia e premendo i talloni nudi contro la pietra. Arrivai in cima in un attimo. Camillo dal basso mi fissava e rideva. Disse: “Eh brava dunzèlla.” Poi venne su anche lui e mi aiutò a saltare dall’altra parte.

C’era dappertutto l’odore delle arance e dei pompelmi e il ronzare delle api. Facemmo a gara a superare con un salto a piedi uniti i canali d’acqua che tagliavano il campo, poi Camillo mi fece salire sulle sue spalle per cogliere i pompelmi più alti che, diceva, erano i più succosi.

Usammo le unghie dei pollici per togliere la buccia che era dura e spessa, faceva bruciare i tagli che avevo sui polpastrelli. Morsi un pompelmo e il succo prese a scivolare sul mento e sui palmi delle mani, fino ai gomiti. Sputammo i semini nell’acqua, poi lanciammo i grossi pezzi di buccia e facemmo a gara a chi li faceva arrivare più lontano, come fossero barchette.

Camillo urlò e disse: “Arriva prima la mia, guarda.”

L’acqua scorreva veloce nei canali, faceva filare le bucce tutt’intorno al giardino. Ci mettemmo a correre per non perderle di vista. Ci arrampicammo senza nemmeno guardare, ferendoci i palmi e le ginocchia, ci buttammo dall’altra parte con gli occhi attenti alle bucce gialle che scivolavano su quell’acqua densa come olio cotto. Correvamo a piedi nudi lungo il sentiero che portava alla chiesa, costeggiando il corso del fiume e inseguendo l’acqua.

“Eccole lì” dissi io indicando nel fiume. “Quella più veloce è la mia.”

Ma a quel punto mi fermai. Camillo non mi stava inseguendo più.

Si era fermato lontano, poco prima del ponte e guardava un punto nell’acqua che non riuscivo a vedere, nascosto da quell’albero che tutti chiamavano “della nebbia” perchè aveva i fiori grossi, gonfi e scuri come batuffoli di vento.

“Che è successo, che hai visto?” dissi facendomi vicino.

Fu allora che vidi quello che vedeva lui: sulla riva, in mezzo all’edera, c’era una gonna accartocciata, una camicia bianca e un fazzoletto azzurro. Nel fiume, tra i muschi del fondale e le alghe verdissime, c’era la macchia scura e gonfia dei capelli di Agata, il luccicore della sua carne nuda.

Riemerse, prese un respiro e inarcò all’indietro la schiena. I capelli le si erano incollati alla fronte, al collo e alle labbra e io pensai alle sirene delle fiabe prima di tornare a guardare Camillo.

Lui la fissava con occhi neri e serissimi, senza parlare. Lo conoscevo quello sguardo. Era così che Agata veniva guardata dai maschi. Così l’aveva guardata il figlio del farmacista e prima di lui il maestro di scuola e il ragazzo che ferrava i cavalli. Ma Agata rispondeva a quello sguardo con quei suoi occhi duri come noccioli e rideva. Uscì dall’acqua coi capelli che gocciolavano lungo l’incavo della schiena. Cantava, con la voce di una bambina che gioca: “Pimpimpella pellampì è suonato il mezzodì ed il cuore mi ferì, pimpimpella pellampì.”

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Fabio Savoini

Con queste mani

 

            Si portò una mano al viso e spostò una piccola ciocca di capelli neri. Gli era scivolata sulla fronte imperlata di sudore a causa dell’umidità che saliva dal fiume e a cui contribuivano brevi e intervallati scrosci di pioggia.

         Gelasio era solo, i piedi affondati nell’erba arrogantemente alta, e spostava il proprio peso dai talloni alle punte, per saggiare con tutto il corpo la terra morbida di Ninfa, così diversa da quella polverosa che ancora lo circondava quando la notte, scivolato nel proprio letto, non poteva far nulla per arginare i propri incubi.

         Avanzava lento, girava su se stesso e osservava le rovine che lo circondavano, resti di un passato sepolto dai rovi, che occultavano e divoravano pietra e memoria di un luogo che aveva conosciuto la ricchezza di mani edificanti e la decadenza delle fiamme della rivalsa. Si avvicinò a un varco semicircolare, un buco in una parete anch’essa decadente, e fece scorrere la mano sul lato dell’arco frastagliato. In fondo, dritto davanti a lui, scorse toni rossi e blu di quelle che sembravano essere le vesti di due santi affrescati, figli d’una sacra resistenza che ancora permetteva loro di mostrarsi ai suoi occhi sulle mura della chiesa di Santa Maria Maggiore, parzialmente risparmiata da un Dio a cui fare ammenda. Sentì sulla pelle una sensazione di vuoto, di mancanza della solida pietra e serrò gli occhi con forza, per scacciare quel tremito che pochi anni prima l’aveva avvolto sul Col di Lana, quando da posizione sicura, era rimasto schiacciato dalla vista dell’enorme cratere sulla montagna e le sue narici erano state invase dall’odore della terra scottata e dei corpi travolti dal fuoco; un orrore multisensoriale frutto di una mente, la sua, che forse non era stata pienamente pronta a raccoglierne il peso.

         Ho fatto ciò che dovevo, ho ideato ciò che serviva, si disse, il cuore in gola, al solo ricordo dell’esplosione che gli pose sulla coscienza centinaia di vite, evocato da un piccolo crollo di macerie alle sue spalle. Avrebbe voluto voltarsi alla ricerca della parete sgretolata, tenendo fra le dita lo stesso impulso di quella notte, di rimettere a posto ogni frammento, di sanare una ferita che legava e avrebbe legato il nome dei Caetani a quello della morte, infida signora in nero e dal profumo di zolfo.

         Attraversò il varco e poggiò la schiena all’interno della parete, accarezzandola con la delicatezza riservata, invece, alla donna che in quel momento cominciava ad amare; una donna di nome Ninfa, di cui la chiesa era solo la spalla, che Gelasio sfiorava immaginando quali meraviglie potesse dare alla luce una volta resa di nuovo fertile.

         Dalla chiesa di Santa Maria Maggiore, iniziò ad abbracciarla sempre più, inoltrandosi per i passaggi che lo stato d’abbandono gli concedeva, sentendo i pantaloni umidi all’altezza delle ginocchia; lame solari facevano capolino dal cielo plumbeo e gettavano luce come un pacato consenso alle sue idee architettoniche: dove la palude stagnante spargeva i suoi odori e impestava l’aria con un denso strato d’umidità, Gelasio vedeva l’acqua limpida e sinuosa tracciare i lineamenti romantici di Ninfa; dove le zanzare danzavano in preda alla sete di sangue, lui vedeva api destreggiarsi fra petali colorati e impollinare fiori.

         Quando la vista del municipio si fece largo di fronte alla sua avanzata, abbandonò il percorso che l’anima selvatica del giardino gli concedeva e si avvicinò come se il cuore di Ninfa, quello da raggiungere per solleticarne l’amore, fosse lì, in quelle pareti scure di rampicanti. Vi schiacciò il palmo e voltò appena la testa, alzando lo sguardo verso la torre. Sul dorso della sua mano calcata sulla pietra, avvertiva il tocco di chi era stato lì prima di lui, di chi, più d’una volta, dopo le fiamme, aveva ricostruito traendo dalle ceneri la vita e facendo risorgere Ninfa come l’araba fenice. Era come se dietro di lui s’allungasse una catena di amanti, dediti a nutrire, nei secoli, la passione per quelle Dee a cui era dedicato il piccolo tempio in mezzo al lago, un’eredità partita da lontano e che sentiva di dover raccogliere, che fosse per sentimento o per dovere, per amore o per colpa.

         L’erba alta frusciò alle sue spalle, ma Gelasio non si mosse. Restò rivolto alla torre, fisso su una maestosità che iniziava a credere potesse essere ripristinata e conservata.

         “Ho fatto ciò che dovevo, ho ideato ciò che serviva” ripeté ad alta voce, rivolgendosi alla madre. Ada rimase in silenzio. Gelasio allora si voltò e le mostrò i palmi. “Queste mani sono nate per costruire; questa mente, per servire queste mani. E l’una ha servito le altre e le altre han costruito ciò che era necessario alla sopravvivenza. Eppure ci si ricorderà di loro per aver costruito un letto di morte, per aver spezzato delle vite. Guarda questo posto, queste rovine: sono il lascito di molti nomi e di quei nomi ne raccontano le opere. Il mio, di lascito, non sarà un buco su una montagna”. Si avvicinò alla madre, le posò le mani sulle spalle e ne guidò lo sguardo sul paesaggio rozzo, ripetendo: “Guarda questo posto, queste rovine: io vedo il ritorno di una gloria passata, la rinascita d’una residenza e ospiti con la possibilità di godere dell’antica e bucolica bellezza di Ninfa. Credo però si possa fare di più, credo che queste mani possano essere artefici di vita, qui, dove l’acqua è grembo e seme”. S’accostò all’orecchio della madre, quasi potesse vedere attraverso gli occhi di lei, e chiese: “Tu cosa vedi?”

         Ada si rivolse alla dea, alla terra, ne guardò i lineamenti velati dal presente guasto e sorrise al prossimo futuro: “ Vedo fiori, colore. Vedo perdono”.

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Letizia Bastonero

Ardendo, vivo

 

“Ardendo vivo”

Roffredo aveva sempre pensato che tra quelle parole mancasse qualcosa.

In un angolo del salone, lì dove il caldo pesante dell’estate trovava la resistenza delle pareti, c’era un camino, stretto tra due grandi librerie in legno scuro, sul camino un ammasso di lettere.

“Ardendo vivo”, aveva risposto sua madre quando Roffredo le aveva chiesto per la prima volta che cosa ci fosse scritto sulla pietra.

“E basta?”

“E basta”, aveva detto lei guardandolo stranita.

Era andato a controllare non appena era diventato grande abbastanza da leggere da solo, ma sua madre aveva ragione, e le parole incise sul camino erano solo quelle due.

Quella mattina Roffredo uscì che ancora il sole faticava a venir fuori. Fece scivolare la mano sul lucido del pianoforte che suo padre aveva fatto portare qualche giorno prima, subito a fianco della porta, poi se lo lasciò alle spalle.

Scese le scale veloce, saltando gli scalini a due a due. I rumori nascosti del giardino gli arrivarono una volta sul fondo, insieme all’afa che saliva dall’erba e dai corsi d’acqua che si facevano spazio tra la terra tiepida. Giugno era quasi finito, ma i colori che spuntavano tra il verde sembravano quelli di una primavera agli inizi, prima un po’ timida, poi sempre più prepotente.

Il fiume scorreva lento, come ad aspettare che qualcuno gli ordinasse di svegliarsi. Cespugli e alberi ne interrompevano a tratti l’andamento, invadendone il letto con grosse macchie scure. Dal sentiero che più in alto si affacciava sull’acqua Roffredo si fermò per un attimo, i fili d’erba gli solleticavano le caviglie e poi i piedi quando si tolse le scarpe.

Non dovette aspettare tanto perché tutto iniziasse.

Delle piante, a lui, era sempre piaciuto il suono. Dei fiori il rumore delicato. Tutto era immobile nella calura estiva, ma era come se, un po’ alla volta, l’acqua che scorreva impaziente facesse parlare ciò che sfiorava passando. I faggi avevano una voce profonda, vibravano tra i bisbigli più delicati dei lecci. I fiori invece sussurravano appena e per sentirli bisognava sdraiarsi sull’erba e appoggiare, facendo piano, l’orecchio al pistillo. Poco gli importava del profumo, a lui pareva proprio di sentirli cantare.

Quando era fortunato e si alzava un po’ di vento, ai suoni bagnati portati dall’acqua si aggiungevano quelli dell’aria. Crescevano fino ad avvolgerlo, risucchiandolo tra quei movimenti morbidi.

Poi il vento calava, i fiori si facevano silenziosi e rimaneva solo il sussurro lontano delle sorgenti. In pochi secondi Roffredo tornava a essere un puntino tra gli alberi, che ogni volta gli sembravano più grandi.

Era come se quella sua permanenza fosse in qualche modo limitata, come se gli fosse permesso di assistere al primo atto di uno spettacolo per poi essere allontanato un attimo prima del suo culmine.

Riprese a camminare quando il borbottio dell’alba tornò ad arrivargli lontano. Voleva vedere il sole incontrarsi con l’acqua, prima che il mondo si accorgesse della mattina e si immergesse in quegli incastri continui che trascinavano le ore in avanti, fino al tramonto.

Un brivido di freddo gli corse su per la schiena non appena infilò nel ruscello il primo piede. Quando ebbe il coraggio di mettere giù anche il secondo ormai il corpo si era abituato e l’acqua non era che un solletico leggero sulla pelle.

Dai rami che si allungavano verso l’alto per catturare la luce ancora timida del giorno gli uccelli si rispondevano quasi fossero un solo animale, senza che il silenzio riuscisse a infilarsi in mezzo a quella cantilena.

Roffredo tentò di imitarli, ma ogni volta che avvicinava le labbra soffiando fuori l’aria, facendo uscire dalla bocca un suono asciutto, simile a un fischio, quelli smettevano di cantare. Bastava che tornasse a stare zitto ed ecco che ricominciavano.

“Se solo fossi uno di loro”, pensava mentre camminava sul muschio del fondale, con i pantaloni sempre più bagnati, “lo spettacolo me lo potrei ascoltare tutto”.

Guardò la superficie dell’acqua scivolargli via dagli occhi, nemmeno quella si preoccupava di fermarsi, lo toccava appena per poi andarsene.

Lasciò il ruscello quando il sole ormai alto gli bruciava la schiena. Entrò in casa spargendo dietro di sé una scia di gocce sui tappeti. Tutto taceva, i rumori del giardino chiusi oltre la porta.

Qualcuno doveva essersi seduto al piano perché lo sgabello era spostato e i tasti erano scoperti. Roffredo rimase per qualche tempo a osservare quella distesa chiara interrotta solo dal nero, posando appena più a lungo lo sguardo lì dove l’ordine si interrompeva dimenticandosi per un attimo quello schema ordinato, per poi riiniziare da capo.

Si sedette sul cuscino morbido appoggiando le mani sulla tastiera senza che il peso spingesse i tasti verso il basso. Lo aveva visto fare qualche volta a suo padre: lasciava che le mani si spostassero da un tasto all’altro, come se il suono che arrivava rispondesse a quello che era venuto subito prima di lui.

Prima il pollice e poi tutte le altre dita si abbassarono sull’avorio dei tasti, premettero forte fino a trovare la resistenza del legno, invadendo il silenzio in maniera disordinata. Roffredo aspettò che l’ultima vibrazione se ne andasse dal salone per poi premere più forte, aggiungendo alle sue mani anche i piedi, che si appoggiavano sui pedali senza sapere bene cosa fare. Il suono ora si prolungava ora si immobilizzava. Si scontrava con i muri, con le lettere scavate nella pietra che dal camino lo fissavano decise.

“Ardendo vivo”, leggeva Roffredo mentre continuava a chinarsi sui tasti.

Più in là, oltre la finestra, il rumore si fece man mano più insistente. Gli uccelli cantavano più forte, gli alberi rispondevano, superavano i vetri delle finestre.

Roffredo fermò le mani tornando a sfiorare la tastiera, si alzò e aprì le ante.

I rumori cessarono.

Tornò allo sgabello, le dita di nuovo sull’avorio. Indice e medio sui tasti, l’uno che inseguiva l’altro. Iniziò lì dove il suono usciva più pesante, arrabbiato. Qualche secondo e il giardino tornò a farsi sentire. Proseguì scivolando verso destra. Più il suono perdeva di peso guadagnando in leggerezza, più il cinguettio diventava insistente, le fronde agitate. Smetteva solo quado i tasti finivano, per poi riiniziare da capo, tornando ai toni austeri per poi passare a quelli più cristallini.

L’avorio prima freddo adesso diventava via via sempre più caldo, si intrecciava al fragore del giardino che sembrava volersi spostare nel salone, passando per la finestra, sbattendo sui quadri che riempivano le pareti.

Bastava che lui decidesse di fermarsi e il suono si fermava con lui.

Da spettatore era improvvisamente diventato maestro.

Il sudore gli scivolava come benzina sulla pelle, cadeva sulla tastiera rendendone scivoloso il passaggio.

Fu allora che i suoi occhi si scontrarono ancora una volta con il camino e infilandosi tra le lettere diventò chiaro che quello che mancava, che era sempre mancato tra quelle parole non era altro che la pausa tra quei tasti su cui le dita ora scendevano con decisione, una virgola tra le note.

Piccolo, appena accennato. Era il silenzio, lo stesso che era costretto a fare ogni volta che lo srotolarsi della tastiera finiva. La stesso che subito dopo scendeva tra uccelli e boschi.

“Ardendo, vivo”.

Bruciava anche lui adesso, e per la prima volta scoprì come finiva lo spettacolo.

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Monica Acito

Le lacrime di Bonifacio

 

Gloria Patri, et Filio, et Spiritui Sancto.
Sicut erat in principio et nunc et semper, et in saecula saeculorum. Amen!

Benedetto Caetani si era svegliato di nuovo sudato e con le gambe che tremavano: erano le sei del mattino.
Afferrò il crocifisso e lo agitò furiosamente, come se il legno della croce potesse purificare quella stanza dove era entrato il demonio: si affacciò e il Giardino di Ninfa tremava sotto la luna di giugno, che se ne stava ancora sul tessuto del cielo. Benedetto Caetani era un vecchio spaventato e il corpo gli faceva male tutto, dalla punta dei capelli fino alle piante dei piedi; i ricordi ormai erano sottili come fili d’erba.

La morte gli pareva vicina, proprio come quella luna che se ne stava impigliata tra le camelie del giardino.
Nudo, nel suo letto, tra le lenzuola ricamate, era Benedetto Caetani, un vecchio con la tosse; fuori, era Bonifacio VIII.

Il Giubileo era iniziato e tutti erano ansiosi di liberarsi dai propri peccati e in quei giorni toccava alle genti che vivevano intorno al Giardino di Ninfa.
Bonifacio VIII si rivestì, recitò i salmi mattutini e il Deo Gratias e poi uscì nel suo Giardino, che era la sua creatura: l’unica parte di lui di cui nessuno osava parlare male.

Guardò quel luogo e si chiese che peccato potesse mai agitarsi in quegli specchi d’acqua, nelle rose rampicanti e nelle nuvole vaporose di fiori, che erano più sacre delle nuvole dipinte nelle chiese, quelle dietro cui spuntavano i cherubini:
Se c’era un Dio, se esisteva davvero un Dio, Benedetto non l’aveva mai visto nel velluto di Roma e nemmeno tra gli altari che odoravano di incenso, ma l’aveva visto soltanto tra le formiche che camminavano sulla pietra del Giardino di Ninfa: quelle formiche che sarebbero state le ultime creature sulla terra a morire.

Era ancora presto ma le confessioni dovevano iniziare. Un merlo aveva gridato, nel cielo che aveva cambiato colore.
Anche gli occhi delle persone cambiavano colore quando Bonifacio VIII passava tra i caprifogli, si velavano di paura: eccolo, era lui il novello anticristo di cui parlava il poeta di Todi, Jacopone; era il demonio che quell’esule fiorentino, Dante, aveva messo nella terza bolgia dell’Inferno senza nemmeno aspettare che morisse.

Eccolo, il diavolo che camminava tra i ciliegi in fiore e le magnolie, il fiore della purezza: la figura del diavolo era scolpita nel sole, diavolo si agitava e si muoveva lì, in quel giardino che pareva trafugato dalla cassaforte di Dio.
Nel giardino, gli avevano preparato un piccolo confessionale, proprio davanti al tempietto delle Ninfe Naiadi. Bonifacio si pose dietro la grata ricoperta di stoffa viola e si preparò a recitare sempre le stesse parole.
“Ego te absolvo a peccatis tuis”.
Quella mattina Bonifacio VIII posò le mani sulle fronti di persone che andavano da lui perché avevano rubato due polli dalle campagne, o di cavalieri che avevano detto una bugia davanti al loro signore. Nel confessionale, tutti avevano gli stessi occhi che brillavano di paura e che Benedetto riusciva a vedere nel buio, dietro la griglia.
Tanti occhi splendenti da felini, che riuscivano a far sentire Bonifacio più piccolo dell’ultimo moscerino di Ninfa: non esisteva assoluzione o fuga da quegli occhi, perché negli occhi della gente c’era scritto chi era Bonifacio VIII.
E solo in quegli occhi Bonifacio VIII aveva potuto vedersi intero.
Il Papa si sentì di nuovo sudato come s’era svegliato quella mattina, e nemmeno l’acqua sorgiva con cui s’era bagnato la faccia, i polsi e il collo prima di mettersi nel confessionale, gli era stata di aiuto.

Dopo due cuoche che erano venute a chiedere perdono al Papa perché avevano rubato delle more da un albero nel giardino, entrò nel confessionale una strana creatura: aveva capelli legati in una crocchia anche se delle ciocche sfuggivano.
Le gote erano rosse, pareva il petto di quell’uccello che troneggiava su tutte le tavole

di Roma, e che i cuochi del Papa chiamavano cardinale rosso.
“Santo Padre”, esordì la strana creatura, con una voce roca e sottile al tempo stesso, come le fini nervature che intarsiavano il legno del confessionale.
Gli occhi della creatura erano grigi, avevano il colore dei Monti Lepini, e non brillavano di paura: avevano qualcosa di selvatico e supplicante al tempo stesso. “Con chi ho il piacere di parlare?”
“Sono Aretusa, e sono una ninfa, bevo soltanto acqua di ruscello, non ho casa, il mio letto sono le foglie del Giardino”.
Bonifacio VIII guardò quella donna: poteva essere chiunque: la Vergine, la Madonna delle Arpie, o poteva chiamarsi davvero Aretusa. Negli occhi di quella donna non c’era la paura che Bonifacio aveva visto negli occhi degli altri nel buio del confessionale, ma c’era qualcosa che emanava bagliori, come il pugnale che la donna teneva appeso alla cintola.
La donna gli parlò come se lo vedesse, nel buio del confessionale:
“Non intendo confessarmi qui al buio se possiamo parlare nel Giardino, alla luce del giorno”.
Bonifacio VIII uscì e si trovò di fronte ad Aretusa: lui non era più un Papa, era Benedetto Caetani; lei poteva avere qualsiasi altro nome, ma in quel momento lei era Aretusa, e lo era per davvero.
Benedetto e Aretusa passeggiarono nella natura: il Giardino era liscio come il collo di una donna, attraversato da gioielli d’erba e vene di macchia mediterranea.
Il sangue, vecchio e stagnante, del Papa riprese a fluire con più forza: il Papa immaginò di togliersi il pesante abito di seta marezzata, pieno di frange dorate, di spogliarsi e di non essere più Bonifacio VIII, ma soltanto un vecchio, un uomo, un ragazzo, un adolescente, un bambino che succhiava spicchi di arance e che staccava petali di fiori scarlatti, un bambino di nome Benedetto e che era benedetto proprio da quel giardino dove tutto rinasceva a vita nuova.
Nessuno l’avrebbe più guardato come facevano i cardinali a Roma, come facevano i nuovi poeti in lingua volgare e nemmeno come facevano i Colonna: si sarebbe

accontentato solo dello sguardo della ghiandaia, che avrebbe illuminato l’unico punto del suo corpo non ancora corrotto, ancora accessibile alla grazia.
Aretusa lo conduceva tra vecchi faggi e lecci, tra i mirti odorosi e i fiori che avevano nomi di divinità greche; Aretusa non era una donna, forse Aretusa era il Giardino, il Giardino stesso che si mostrava a un Papa. Aretusa volteggiava come una libellula, tra i laghetti, l’aria umida e tra il sole che mordeva le foglie.

“Io lo so che gli altri ti considerano il diavolo. Ma io no”.
Benedetto Caetani guardò i melograni e le ortensie rampicanti, e pensò che non si sentiva così stanco da quando era andato a piedi fino in Francia per il Concilio di Lione.
“Gli altri mi considerano il diavolo e forse io lo sono davvero, forse non sono degno di queste vesti che porto”.
“Eppure il diavolo mi ha salvata. Allora forse sono un diavolo anch’io?”

“Cosa hai perduto?”
Aretusa si fermò vicino a un pino, e i suoi occhi grigi erano d’argento, i suoi occhi erano il pugnale.
“Lo vedi questo pugnale? Era del mio Leandro. Non me ne separo mai, nemmeno quando mi lavo: quando mi bagno nel laghetto del Giardino, io porto con me il pugnale, e quando dormo, lo metto vicino al mio giaciglio di foglie”.
Aretusa si toccò il pugnale, che tintinnava di luce sotto il sole assassino di giugno e che feriva il Giardino di Ninfa.

“Il mio Leandro era andato in Terra Santa: è finito sgozzato come un capretto, dai saraceni. Il mio Leandro non era nessuno, contava quanto l’ultimo insetto che ora vedi sotto i sassi. Se non fosse stato per la bolla, per la legge che tu, diavolo più ragionevole di tanti cristiani, hai emanato a Roma, io ora non avrei una tomba dove andare a trovare il mio Leandro, una tomba dove immaginare il corpo dell’uomo che ho amato”.

Aretusa aveva occhi selvatici e docili al tempo stesso: Bonifacio pensò che ormai la salute e la ragione erano volate via da quello sguardo di donna. E poi pensò a quella bolla che aveva emanato a Roma, una delle ultime cose che aveva fatto, forse per farsi perdonare da un Dio che sentiva sempre più lontano, forse per dispetto a tutti quelli che gli dicevano che era il diavolo. Era una legge che permetteva ai cadaveri di tornare in patria, di tornarci integri, e non rinchiusi in un cofanetto sotto forma di ossa, interiora e brandelli di carne scuoiata.

Aretusa continuò, afferrando una manciata di terra, da cui uscirono delle formiche rosse:
“Il mio Leandro, che aveva sempre le mani sporche di terra. Lui, in questo giardino mi avrebbe sposata se solo i saraceni non gli avessero tagliato la gola: ora sono io che gli porto le rose che lui piantava, l’unica cosa viva di lui in questo giardino”.

Bonifacio ascoltò le parole di Aretusa e poi guardò gli aceri a foglie bianche, gli alberi di tulipani e i boschetti: pensò a tutti i Leandro che avevano piantato rose antiche in quel Giardino, a tutti i Leandro che in quel giardino non ci erano più tornati.

Di nuovo, Benedetto tornò a sentirsi sudato come quel mattino, non voleva più ascoltare le confessioni di nessuno: le parole di quella donna che credeva di essere una ninfa gli avevano parlato più di qualsiasi preghiera.
D’un tratto, gli tornò alla mente la visione della notte prima e che lo aveva fatto svegliare in un bagno di sudore: Benedetto aveva sognato il demonio che gli diceva “Otterrai il Papato come una volpe, regnerai come un leone e morirai come un cane”. Ma lui non voleva morire come un cane: quel giardino, il suo giardino, gli aveva acceso il desiderio di vedersi vero come quelle acque trasparenti che mostravano il profilo d’argento delle trote.

Benedetto Caetani si inginocchiò su un ruscello, dove il sole si rifletteva sul pelo dell’acqua e si sgretolava in tante scaglie dorate: vicino a lui c’era Aretusa, e intorno

a lui e ad Aretusa c’era solo il Giardino di Ninfa, che li ingoiava vivi entrambi. Aretusa prese un sorso d’acqua da una piccola cascata, e poi chiese a Benedetto, sottovoce:
“Visto che dicono che sei un diavolo, adesso rispondi alla mia domanda: è vero, come dicono, che Celestino V, il tuo predecessore, non ha mai rinunciato al Papato ma lo hai avvelenato tu per prendere il suo posto?”

Benedetto Caetani si chinò sul manto dell’acqua e gli affidò quello che gli era sempre morto in bocca, quello che gli si era sempre bloccato in gola

Poi, iniziò a singhiozzare. Nel Giardino di Ninfa, il suono dell’acqua copriva tutto: lì, anche i diavoli potevano piangere.

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Qui il video della serata

Il soggiorno letterario organizzato dalla Fondazione Roffredo Caetani fa parte dei progetti per il Centenario del Giardino di Ninfa di cui il quotidiano La Repubblica è media partner e che sono patrocinati dalla Rai. Gli eventi sono in collaborazione con la Regione Lazio e con i Parchi Letterari. (Testi: riproduzione riservata)